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 2016  aprile 30 Sabato calendario

Il romanzo è stato ucciso dalle intercettazioni

Un tempo non troppo lontano si prendeva in mano Proust (giusto per fare un esempio) e si entrava direttamente nella vita delle persone. Il protagonista della Recherche (La ricerca del tempo perduto) si metteva a nudo, raccontandoci vita e morte delle persone che il vero Marcel aveva incontrato. Tutti. Nessuno escluso. Per questo leggere una biografia su Proust risulta noioso. Quello che aveva da dire lo aveva già detto lo scrittore francese nella sua opera. Quanto ci fosse di vero, quanto di inventato è poco importante: in quelle pagine, in quella assoluta nostalgia per il tempo che passa, scorreva qualcosa di unico. Di speciale. Scorrevano odio e amore, invidia e peccato, gelosia e passione. Dolore. C’era tutto. C’era la vita raccontata in maniera struggente e conflittuale.
Oggi i sette volumi della Recherche sono riposti nello scaffale. Al loro posto apriamo il giornale per leggere le intercettazioni. Il meccanismo è lo stesso: scorre apparentemente la vita delle persone, appaiono i loro vezzi, le loro paure, le loro insicurezze. Come quando l’ex consigliera regionale Nicole Minetti chiede a più riprese, a un amico comune, se davvero Berlusconi quella sera vuol vedere lei, proprio lei. O quando l’ex ministra Federica Guidi si lamenta del fatto che viene tratta come una «sguattera del Guatemala» dal suo compagno. L’esistenza delle persone ritorna nelle frasi spezzettate delle intercettazioni, sottratte dal flusso vitale e messe in fila sulle pagine dei quotidiani. Il privato viene sbattuto in prima pagina, ma la vita, quella vera, muore. Perché quelle frasi non ci danno il senso dello scorrere del tempo, ma di un’immagine congelata al momento del trapasso. Mettono in scena la fine, la morte. Eppure sono il genere oggi più in voga.
Il linguaggio
Senza forse volerlo, pm e giornalisti hanno inventato un nuovo genere letterario che a tratti potrebbe ricordate lo stile di uno scrittore italiano come Carlo Emilio Gadda. Linguaggio nervoso, frasi nominali, costruzione paratattica con frasi accostate senza alcuna apparente connessione. Uno stile moderno, che però solo con una forzatura sarcastica possiamo accostare a uno dei più grandi scrittori italiani del Novecento. In Gadda lo stile non conforme alla narrazione tradizionale era ricerca di un nuovo immaginario, era il tentativo estremo e riuscito di non banalizzare il mondo per restituirlo in maniera ancora più potente, più forte. Lo stile delle intercettazioni è l’esatto opposto: uno stile senza stile, un racconto senza racconto, una narrazione che non restituisce niente se non il vuoto di una messa in scena ad uso e consumo dei voyeur che siamo noi. Leggendo le intercettazioni ci illudiamo di sapere tutto, di conoscere tutto. Ma in realtà stiamo assistendo alla fine della conoscenza, alla fine di quel nobile tentativo che era, in parte la letteratura: mettere ordine al caos che ci circonda, entrare in profondità, oltre le apparenze.
Aspettando Godot
Leggendo e rileggendo le frasi che appaiono sui giornali viene in mente anche un altro paragone, quello con Samuel Beckett, lo scrittore e drammaturgo irlandese che meglio rappresenta il teatro dell’assurdo: battute ossessive e ripetute, fondate sulla illogicità del mondo. Ma come per Gadda, il paragone è giocato sul filo del paradosso. Beckett contestava la realtà, la metteva a soqquadro con uno stile inconfondibile che ha fatto scuola. Le intercettazioni fanno esattamente l’opposto: certificano l’esistente, lo innalzano a modello, ci dicono che tutto inizia e finisce nel nostro piccolo microcosmo. Beckett era un rivoluzionario, uno scrittore che non si accontentava della banalità dell’evidenza. Le pagine e pagine di ordinanze che finiscono sui giornali ci dicono che viviamo come nel Processo di Franz Kafka: vittime e allo stesso tempo carnerfici di un potere che non riusciamo più a capire, neanche quando parla o trascrive le nostre conversazioni con la pretesa di certificare la verità.
Non disperiamo
Viene da chiedersi se tutto è finito. Se si fa un giro in libreria, a tratti viene da rispondere di sì. A parte alcuni titoli di grande successo, non si può non riconoscere la crisi della letteratura. Tutti l’hanno superata, a destra e a sinistra. Eppure resta lì. Resta lì come una speranza, come una possibilità. Quella di non rinunciare a raccontare pezzetti di mondo dandogli un ordine e un senso che non sia quello del mettere in piazza, senza mediazioni e senza pietà, la vita altrui. Non è il rimpianto di uno stile classico, tradizionale, che si dipana secondo parametri prefissati. Si tratta di non rinunciare alla bellezza di una narrazione che ci rappresenti vivi ancora prima che imputati, di una storia che sia capace di restituire ciò che siamo senza giudicarci. Se la letteratura ha un senso rispetto alle intercettazioni è propria questo: raccontare contraddizioni, sfumature, conflitti di un privato che non può essere ridotto a una o più telefonate.