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 2016  aprile 30 Sabato calendario

La lezioncina che Weidmann è venuto a fare ai politici italiani è contraddetta da cifre e statistiche. Leggete qui

Per evitare una nuova crisi dell’euro, c’è chi invoca più Europa e chi si ferma molti passi più indietro, come ha fatto il governatore della Bundesbank Jens Weidmann, con il discorso su «Solidità e responsabilità nell’Unione monetaria» svolto martedì 26 aprile a Roma, in cui ha ribadito il pericolo del debito eccessivo degli Stati che deriva dal malfunzionamento del Trattato di Maastricht.
Al fine di obbligare gli Stati ad adottare politiche volte alla stabilità, si prevedevano due distinti meccanismi: limiti quantitativi al deficit e al debito, e un «regolamento» per il tramite dei mercati finanziari. Gli alti tassi di interesse praticati nei Paesi più indebitati avrebbero dovuto penalizzare chiunque dal procedere oltre su quella china. Ma, secondo Weidmann, «entrambi i meccanismi si sono dimostrati inefficaci»: molti Stati, tra cui la Germania e l’Italia, hanno eluso i vincoli al deficit pubblico; i mercati finanziari, essendo venuto meno il rischio di cambio, hanno applicato anche ai Paesi con i fondamentali più deboli tassi di interesse molto bassi, inducendoli a continue politiche espansive. Tutti hanno scommesso sul fatto che comunque, in caso di crisi, ci sarebbe stato un salvataggio generale, e così è avvenuto.
Occorre dunque ripristinare il principio secondo cui ciascuno è responsabile delle proprie azioni, Stati e banche: serve un’autorità europea indipendente che applichi inflessibilmente le regole del Fiscal compact, rimediando al lassismo della Commissione Europea.
Per evitare il ripetersi dell’azzardo morale da parte delle banche, è stato introdotto il principio del bail in: azionisti, obbligazionisti e depositanti rischiano di perdere tutto. Si ripristina il pilastro dell’Unione monetaria: il principio di responsabilità.
C’è un primo punto da verificare: l’affermazione secondo cui, «come tutti sanno, le norme di coordinamento basate sul principio della responsabilità dei singoli Stati non sono state tuttavia in grado di prevenire gli sviluppi negativi nell’area dell’euro».
In realtà, dopo il Trattato di Maastricht, tutti i principali Paesi europei hanno fortemente ridotto il rapporto deficit/pil. Tra il 2001 e il 2008, solo Grecia e Portogallo hanno sforato ampiamente il limite del 3%, rispettivamente con il 7,1% e con il 4,5%, mentre l’Italia ha registrato in media un 3,2%, la Francia un 2,9% e la Germania un 2,4%.
Spagna e Irlanda hanno avuto un pareggio costante di bilancio.
Anche il rapporto debito pubblico/pil è migliorato. Tra il 2001 e il 2007, Belgio -20,6%, Spagna -18,7%, Irlanda -9,3% e Italia -5%. Francia e Germania lo hanno peggiorato del 6,2% e del 5,9%. Con l’eccezione della Grecia, i cui conti pubblici si sono rivelati inaffidabili, non c’è stata una violazione consistente e sistematica dei vincoli posti ai deficit pubblici dal Trattato di Maastricht.
Le ragioni si rinvengono invece negli sbilanci delle partite correnti con l’estero: nel periodo 1993-2007, la Grecia aveva accumulato un passivo pari all’80% del prodotto interno lordo, il Portogallo al 104,7%, la Spagna al 61,2%, mentre l’Irlanda un saldo negativo del 14,7% nel solo periodo 2001-2007. In questi anni la Germania ha registrato un attivo del 24,4% del pil, rispetto al -10% del periodo 1993-2000, e la Francia un attivo dell’8,7%. L’Italia un passivo del 4,8%.
La stabilità delle finanze pubbliche e la bassa inflazione hanno oscurato ben altri e preoccupanti squilibri. In Grecia si sono sommati quelli esteri alla perdita di controllo dei conti pubblici; in Portogallo, il pesantissimo deficit con l’estero è stato a mala pena bilanciato da una finanza pubblica in linea con i vincoli posti al rapporto debito/pil; Irlanda e Spagna non sono state travolte dalle crisi bancarie solo per merito degli aiuti internazionali e di una situazione di finanza pubblica eccezionalmente solida, avendo registrato nel 2007 un rapporto debito pubblico/pil pari rispettivamente al 23,9% ed al 35,5%. I mercati avevano approfittato di questa favorevole circostanza, un debito pubblico bassissimo, per indebitare dall’estero questi tre Paesi: Portogallo, Irlanda e Spagna.
Il «teorema Weidmann» va rivisto: la stabilità dell’euro è stata messa a rischio dal disallineamento tra credito e debito. Le banche spagnole, come quelle irlandesi, hanno finanziato la bolla immobiliare con risorse estere, mentre i loro cittadini non avevano mezzi idonei per indebitarsi senza rischio. Diversamente dalla banche statunitensi, hanno tenuto in bilancio questi crediti, invece di cartolarizzarli e rivenderli all’estero, come era stato fatto con i mutui sub-prime delle famiglie americane: erano tante piccole Lehman Brothers. Anche in Europa è esploso il debito privato: calcolato in percentuale sul pil, tra il 1995 e il 2008 è aumentato di 78 punti in Grecia, 130 in Spagna, 116 in Portogallo. In Irlanda era passato dal 172% del 2005 al 255% del 2008.
La crisi bancaria europea era inevitabile, ma ha avuto un processo di salvataggio diverso rispetto a quello che aveva caratterizzato le perdite derivate dal crollo di Wall Street. Bisogna dunque distinguere nettamente i due fenomeni, che invece sono accomunati nelle statistiche dei costi fiscali netti dell’assistenza al settore finanziario europeo nel periodo 2008-2014: è costata 234 miliardi di euro alla Germania, 104 miliardi al Regno Unito, 59 miliardi alla Irlanda, 53 miliardi a Spagna e Olanda, 40 miliardi alla Grecia (22% del prodotto interno lordo).
Il costo delle crisi di Grecia, Irlanda, Spagna e Cipro è stato ampiamente mutualizzato, attraverso l’Efsm e poi l’Esm che hanno scaricato sulle loro finanze pubbliche gli aiuti da restituire. La solidarietà europea è servita solo ad evitare altre perdite per le banche tedesche e francesi: anche l’Italia ha partecipato, con circa 50 miliardi di euro, per consentire a Spagna, Grecia e Portogallo di ripagare altri creditori.
C’è un problema di squilibri continentali, tra formazione e allocazione del risparmio, cui Weidmann accenna appena: «il flusso di capitale è stato destinato non soltanto agli investimenti produttivi, ma anche al consumo privato e pubblico». L’eccesso di risparmio in alcune aree, e correlativamente l’eccesso di debito in altre, viene affrontato a livello aziendalistico, con le norme sul bail in, quando invece è il sintomo di una disfunzionalità più profonda: la Germania esporta disoccupazione e recessione in tutto il Continente. Il suo attivo strutturale della bilancia commerciale, ampiamente superiore all’8% del pil, determina una formazione eccessiva di risparmio in cerca di impiego all’estero, perché all’interno creerebbe una indesiderabile inflazione degli asset. Di qui, la frustrazione tedesca nei confronti della politica monetaria della Banca Centrale Europea, che invece con i tassi di interesse irrisori sta solo evitando nuovi default dei debitori e la sicura perdita per la Germania di ingentissimi investimenti di portafoglio all’estero. Il problema tedesco è quello di dare solidità finanziaria al surplus commerciale strutturale, mentre la stabilità sistemica passa dalla sua eliminazione.
L’Italia ci ha addirittura guadagnato dalle difficoltà delle sue banche, visti i proventi incassati sulle garanzie e gli interessi su Tremonti e Monti bond; al contrario, per i salvataggi internazionali, considerati anche i prestiti bilaterali con la Grecia, ha speso quasi 60 miliardi di euro, più di quanto è costata alla Spagna la crisi del suo sistema bancario. Questi sono i conti. Tutto il resto è solo un piacevole, quanto inutile, diversivo.