Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  aprile 30 Sabato calendario

A contestare di Donald Trump si finisce in galera

Ha la nomination a portata di mano e, da settimane, prova a mostrarsi presidenziale. Ma continua a suscitare ostilità in larga parte dell’opinione pubblica americana e addirittura insofferenza. E così Donald Trump è stato di nuovo vivacemente contestato l’altra notte a Costa Mesa, dove aveva appena tenuto un comizio davanti a migliaia di sostenitori. Siamo nel Sud della California, in quell’Orange County che è una delle più ricche dell’Unione, teatro d’una serie tv di grande successo una decina di anni fa. E lì, fuori dall’OC Fair & Event Center, si sono ripetuti incidenti che già c’erano stati a St. Louis, Chicago e New York.
Ventuno le persone arrestate, dopo che la polizia, intervenuta in tenuta anti-sommossa e con agenti a cavallo, ha disperso centinaia di manifestanti che avevano bloccato alcune strade limitrofe al centro congressi, danneggiando veicoli delle forze dell’ordine e lanciando sassi contro gli uomini in divisa. È un segnale, l’ennesimo, del livello di tensione e di scontro suscitato dalla campagna elettorale per Usa 2016: le passioni pro e contro innescate da Trump, showman e provocatore, che fa del suo parlare franco un elemento distintivo, hanno forse precedenti solo nei contrasti nati negli Anni 60 intorno alla campagna razzista di Barry Goldwater. Anche se finora s’è per fortuna lontani dal clima di violenza omicida del ’68, l’anno degli assassinii di Martin Luther King e Robert Kennedy.
Il magnate dell’immobiliare è un catalizzatore di ostilità, ma anche di consensi. Lo dimostra il fatto che s’appresta a battere il record di voti avuti nelle primarie repubblicane che è di George W. Bush: nel 2000, il futuro presidente ottenne 10,8 milioni di suffragi. Trump ha già superato i 10 milioni e mancano ancora una quindicina di Stati, fra cui proprio la California, il più popoloso. Quattro anni fa, in tutte le primarie, Mitt Romney, il candidato repubblicano poi battuto da Barack Obama, ebbe meno di 10 milioni di voti; e così pure nel 2008 John McCain.
Su Politico, Eric Ostermeier, docente all’Università del Minnesota, constata che solo otto candidati hanno incassato oltre 7,5 milioni di voti alle primarie repubblicane: è “un dato scomodo per le forze anti-Trump” dentro lo stesso partito, che vorrebbero impedire a tutti i costi allo showman d’ottenere la nomination. Anche se l’idea di tirare fuori un asso dalla manica alla convention, se il magnate ci arriva senza la maggioranza assoluta dei delegati, pare ormai tramontata. Finora, non ci sono state tragedie. Ma Trump non annacqua le posizioni più drastiche e conflittuali. Sul palco d’un comizio, sempre in California, ha fatto salire familiari di vittime d’immigrati illegali: un modo per rafforzare il messaggio che i clandestini, specie i messicani, sono tutti criminali e che occorre alzare un muro lungo la frontiera con il Messico. Ieri, infine, stoccata alla possibile futura avversaria democratica, Hillary Clinton: “Siamo pronti a tirare in ballo il passato di Bill Clinton, se Hillary non la smette con le accuse di sessismo”. L’avvertimento alla rivale nella sfida finale per la Casa Bianca è quello di fare un passo indietro sulle accuse riguardanti l’inclinazione sessista dell’aspirante candidato repubblicano alla presidenza.