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 2016  aprile 30 Sabato calendario

In Arabia Saudita c’è chi paga (parecchio) per evitare il boia

La purezza dell’islam è racchiusa solo nelle parole. Con la pena di morte si fanno affari per oltre 50 milioni di dollari». Dopo queste parole Ahmed Al Qerani, uno degli imam più in vista di Riad, è stato costretto ad abbandonare l’Arabia Saudita e a rifugiarsi ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi, per salvare la pelle. Due settimane fa Al Qerani aveva rivelato al quotidiano Al Eqtisadiah che la sharia, nel caso di pena di morte, «viene accantonata quando in ballo ci sono i soldi». Nelle norme giuridiche fondate sulla dottrina coranica, la pena capitale è contemplata in 4 casi: omicidio, adulterio, bestemmia (verso Allah) e apostasia (abbandono della religione islamica). In tutte e quattro le situazioni è richiesta la testimonianza di quattro musulmani adulti o una completa confessione del colpevole.
La maggior parte delle condanne viene espletata mediante decapitazione con tre colpi di spada o per impiccagione, ma in alcuni casi è stato impiegato anche il plotone d’esecuzione. Talvolta i cadaveri dei condannati a morte sono stati esibiti in pubblico. Tutto questo a meno di un ripensamento dei parenti della vittima, «inteso come perdono ispirato da Allah», aggiunge Al Qerani. Da due anni a questa parte il perdono «non ha più alcun valore o significato religioso e morale, viene monetizzato. Tutto ha un prezzo». Se da un lato è acclarato, lo ricorda nel suo rapporto Amnesty International, che nel 2015 sono state eseguite 153 condanne a morte (76% in più del 2014), è altresì fondato che altre 374 persone, quasi il triplo di quelle transitate dal patibolo, hanno ottenuto il perdono dopo un pagamento in denaro e hanno fatto ritorno a casa con la fedina penale mondata da qualsiasi crimine. Ogni storia ha una propria narrazione, legata soprattutto alle disponibilità economiche del condannato e dei suoi familiari. Si va da poche centinaia di dollari, ai quasi 11mila scuciti a febbraio dai genitori di uno studente di medicina di Dammam per strapparlo dall’esecuzione per l’uccisione di un compagno di università. «Siamo andati dinanzi al giudice a rinunciare al diritto di versare altro sangue», si difende la famiglia della vittima. In realtà, con la connivenza e mediazione dei giudici, i genitori del ragazzo morto hanno proposto la sospensione della pena in cambio di soldi. Un quarto della somma è andata al tribunale e regolarmente registrata sotto la voce «spese di cancelleria».
Nei primi quattro mesi del 2016 la situazione non è affatto cambiata: ad oggi in Arabia Saudita sono state giustiziate 58 persone, ma altre 76 hanno visto revocata l’estrema sanzione dopo il pagamento di importi per un ammontare di 12 milioni di dollari. In questi casi, come denunciava l’imam in esilio, «Allah misericordioso è soltanto una formula da pronunciare a voce alta per nascondere la sete sfrenata di denaro dei tribunali compiacenti e di famiglie disposte a tutto pur di strappare il condannato dalle mani del boia». In Arabia Saudita le condanne a morte vengono firmate dal 31enne vice principe ereditario Mohamed Bin Salman, considerato (ironia della sorte) un monarca illuminato. Il secondo erede nella linea di successione alla corona ha limitato di recente i compiti della polizia religiosa, la temuta Moutawa. Qualcuno parla di «perestroika del deserto», ma bisogna andarci cauti quando si tratta di Paesi permeati dall’islam di ispirazione wahabita: le manette ad esempio non scatteranno più ai polsi delle donne colte sul fatto senza velo. Verranno processate per direttissima e condannata a punizioni corporali (10 nerbate), inflitte dal padre, marito o fratello.