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 2016  aprile 30 Sabato calendario

Storia d’Italia attraverso i bijoux

Gingilli, vezzi, monili, gioie. Bijoux insomma, sublime parola francese italianizzata in «bigiotteria». Di quella francese inglese e americana si sa tutto, su quella di casa nostra è appena uscito un libro che ne racconta la storia e ne illustra con bellissime (e grandi) foto la creatività. Un made in Italy glamour, ma poco noto, di nicchia ma mica tanto, nato su imprese di famiglia oggi alla terza o quarta generazione.
Divertente e geniale
Una storia non solo gloriosa ma varia, drammatica perché segue la Storia con S maiuscola e quindi va con lei in guerra e poi si riprende, divertente e geniale come è spesso quel che riguarda la produzione artigianale e industriale del Belpaese.
«Storia della Bigiotteria Italiana» della storica del gioiello Bianca Cappello (Skira editore) è un libro da leggere e regalare (anche ad amici stranieri, ha traduzione inglese a fronte) ma soprattutto si può sfogliare come si vuole, facendosi catturare dalla foto di un collier multifilo di Ornella bijoux, di uno strangolino a serpente di Bozart, di una spilla pagliaccio di Sharra Pagano per Giorgio Armani, di un monile scultoreo di Gianfranco Ferré o di un bracciale in resina di Donatella Pellini. Si guarda e si va a leggere in che epoca siamo, cosa va di moda, come sta la donna e che cosa le piace.
Dopo l’Unità d’Italia
Ma anche a sfogliare le pagine in ordine, la lettura è semplice e si scoprono tante cose. Che la bigiotteria italiana nasce dopo l’Unità d’Italia come imitazione della gioielleria per venire incontro alla nuova borghesia nascente. Come nella gioielleria, c’è un’alta bigiotteria e una più popolare, dipende dai materiali e dalle tecniche di lavorazione.
I materiali sono leghe metalliche, tessuti, plastica, finto corallo e, soprattutto, il «placcato oro» inventato a Casalmaggiore nel Cremonese.
Che cosa si imita? I gioielli della tradizione francese e inglese, ma anche quelli del Medioevo e del Rinascimento italiani. Il torinese De Wan riproduce le spille delle regine.
Leggendo si scopre che in questi primi periodi c’è una fiorente bigiotteria da lutto di sapore romantico con spille nere «a forma di fiocchi, nodi, fiori non-ti-scordar-di-me... a simboleggiare la forza del legame interrotto», scrive la Cappello. Accanto a questa c’è una bigiotteria devozionale fatta di medagliette rosari e croci che avrà sempre un suo successo fino al definitivo sdoganamento fashion che ne hanno fatto Dolce & Gabbana nel 1985.
Non solo futurismo
Tornando indietro colpiscono le spille futuriste a forma di aereo e quelle coi teschietti e la frase choc «me ne frego» delle signore fasciste. L’Egittomania conseguente alla scoperta della tomba di Tutankhamon dissemina scarabei dappertutto. L’autarchia costringe negozi che importavano bijoux da Parigi a produrne di propri, comprese le fedi in ferro da sostituire a quelle d’oro donate alla patria. Con il dopoguerra anche la bigiotteria italiana vede il suo boom e nel ’52 sfila nella Sala Bianca di Palazzo Pitti con le creazioni di Emma Caimi Pellini, Cascio, Coppola e Toppo. I bigiottieri quindi collaborano con l’alta moda ma anche con l’arte e il cinema (Bijoux Elfe realizza i gioielli di Quo Vadis). Negli Anni 60 si sperimenta la plastica, nei ’70 tutte vogliono la collana lunga, negli ’80 sono gli stilisti a dettare il loro stile e trionfa l’opulenza, nei ’90 si va all’opposto, con il minimal e il vintage. Il resto è storia recente e nessuna donna assennata considera i propri bijoux frivolezze effimere. E assieme a una colazione da Tiffany oggi ne sogna una dalla Pellini.