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 2016  maggio 01 Domenica calendario

Enzensberger e il curriculum degli insuccessi

«Il successo è il solo metro di giudizio di ciò che è buono o cattivo». Potrebbe essere il motto di un dirigente marketing dei nostri giorni. Invece, sapete chi l’ha scritto? Ve lo dico dopo. Intanto, sappiate che l’idea opposta è di James Joyce, il grande scrittore irlandese che non si preoccupò certo di essere letto da un gran numero di persone, visto che scrisse uno dei romanzi più ostici della letteratura, Ulisse, per non parlare di Finnegans Wake, esempio massimo di libro intraducibile. Ebbene, Joyce fece dire a un suo personaggio, il professor McHugh, la seguente frase, che oggi suonerebbe fastidiosamente snob: «Fummo sempre fedeli alle cause perse: il successo per noi è la morte dell’intelletto e della fantasia».
Senza dover sposare le posizioni estreme, si può affermare che anche il fallimento aiuta, anzi a volte aiuta più dell’obiettivo felicemente raggiunto. È il salutare messaggio che ci arriva da un professore dell’Università di Princeton, il quale ha deciso di pubblicare su Twitter il Curriculum Vitae dei suoi fallimenti. Non un professore qualunque, se è vero che Johannes Haushofer – già ricercatore a Oxford, a Harvard e a Zurigo – insegna psicologia e neurobiologia. Intanto, a onor del vero, va detto che questa trovata ha fatto guadagnare al giovane Haushofer una visibilità che neanche l’intero corpus delle sue pubblicazioni scientifiche gli ha mai regalato.
«Fallisco nella gran parte delle iniziative in cui mi cimento – ha confessato Haushofer —, ma i fallimenti, a differenza dei successi, rimangono invisibili». Da qui l’intuizione di elencare i progetti mai realizzati, i premi non conseguiti, le promozioni accademiche mancate, gli articoli rifiutati da riviste scientifiche, i finanziamenti non ottenuti. È vero che la delusione, per lo più, viene elaborata nel silenzio (più o meno umiliato) del proprio foro interiore. E spesso resiste, come un cibo mal digerito che si ripropone di continuo. Lo spiega bene il grande scrittore tedesco Hans Magnus Enzensberger che ai suoi «flop preferiti» ha dedicato un intero libro autobiografico (uscito qualche anno fa in Italia da Einaudi). «Flop», con il suo evidente valore onomatopeico, significa alla lettera: «tonfo», ma diventa metafora di «fiasco», «insuccesso». Perché essere tanto restii a raccontare le piccole o grandi sconfitte, si chiede Enzensberger? Timore della brutta figura? Con la sua autorevole esperienza di ultraottantenne, lo scrittore invita i suoi (molti) lettori a rilassarsi: rivelare i propri flop è «non solo istruttivo e rinfrancante, ma anche divertente». Perché anche nei naufragi (metaforici), a ripensarci, c’è un’illuminazione di cui fare tesoro. Anzi, proprio quell’amarezza che emerge nel ricordo aiuta a mitigare il senso di onnipotenza e il narcisismo devastante che deriverebbero dall’abitudine al successo. Del resto, si sa, sbagliando si impara. E chi crede di non sbagliare mai o non vuole tornare sui propri errori, non farà progressi. Ovvietà. Tant’è vero che gli esperti insegnano che i successi duraturi iniziano sempre dai fallimenti. Purché la sconfitta non significhi inconcludenza, certo.
Haushofer si lancia a parlare di «stocastica», di quella teoria cioè che si occupa della casualità, della probabilità, dell’aleatorietà. Ma esagera quando afferma che il successo di un’idea dipende spesso dalle condizioni del momento, dagli umori dei commissari d’esame e in definitiva dagli imponderabili capricci del caso, come in un gioco d’azzardo. Esagera, anche se la sua è una strategia psicologica utile ad attenuare il senso di colpa. E poi non ha torto Lucia Lorenzi che da un dipartimento universitario inglese avverte su Twitter: non tutti possono permettersi di esibire la propria vulnerabilità, poter elencare i propri fallimenti è un privilegio di chi non è precario.
(A proposito, la frase iniziale è tratta da Mein Kampf di Adolf Hitler).