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 2016  aprile 28 Giovedì calendario

Due ritratti di Giovanni Bazoli

Paolo Bricco per Il Sole 24 Ore
«Non lo conoscevo. Mi diede appuntamento al casello autostradale di Brescia. Io arrivai con la macchina blu guidata dall’autista in livrea. Lui mi aspettava, da solo, su una utilitaria, mi pare una Fiat 500. Appena lo vidi su quell’automobile, pensai: “Bazoli-Nesi 1 a 0”». A raccontare l’incontro con Giovanni Bazoli, nel tempo difficile della ricerca di una soluzione al collasso del Banco Ambrosiano, è Nerio Nesi, allora presidente della Banca Nazionale del Lavoro.
È un giorno di fine luglio del 1982. Il 17 giugno il corpo di Roberto Calvi, il presidente del Banco Ambrosiano, è stato trovato appeso al Ponte dei Frati Neri sul Tamigi. Nesi è a capo della principale banca pubblica italiana,la Bnl. Giovanni Bazoli è un avvocato di Brescia di 49 anni che insegna diritto pubblico alla Cattolica di Milano. È nipote di Luigi, fondatore del Partito Popolare, e figlio di Stefano, deputato democristiano della Costituente. Il suo cattolicesimo ha come riferimento papa Giovanni Battista Montini. Nel 1974 è entrato nel consiglio di amministrazione del San Paolo di Brescia. Ma, nella sostanza, Bazoli è estraneo alla maggioranza dell’establishment italiano.
L’Italia è, da tre anni, in uno scenario da romanzo criminale. La P2 di Licio Gelli dilaga. La mafia imperversa. Un coacervo politico-giudiziario-affaristico trasforma in obiettivi Paolo Baffi e Mario Sarcinelli, governatore e vicedirettore generale della Banca d’Italia, che il 24 marzo 1979 sono il primo incriminato e il secondo arrestato dalla Procura di Roma. L’11 luglio del 1979 Michele Sindona, che fa da raccordo fra banche, malavita organizzata e Ior, manda a Milano un sicario a uccidere Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della sua Banca Privata Italiana.
Milano, di fronte al crack della sua prima banca che si è autofagocitata con l’oscura opacità e gli illeciti fuori controllo delle consociate in Centro e Sud America, è scossa dal suo interno. In quella estate del 1982 il ministro del Tesoro, Beniamino Andreatta, e il governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, si muovono velocemente. Si legge nelle agende originali del governatore Ciampi, riportate nel volume “Una storia italiana. Dal Banco Ambrosiano a Intesa Sanpaolo”, di Carlo Bellavite Pellegrini: «2 luglio 1982. Ore 9,15. Riunione con il Direttorio. Concludo invitando a mettere allo studio per l’eventualità di ricorso alla liquidazione, la creazione di un Nuovo Banco Ambrosiano che subentri al vecchio con capitali apportati da primarie banche italiane». Andreatta e Ciampi costruiscono un pool – le tre banche pubbliche Bnl, Imi e San Paolo Torino con il 50% e le quattro private San Paolo Brescia, Bpm, Rolo e Banca Agricola di Reggio Emilia con il rimanente 50% – che apporta i 600 miliardi di lire con cui sanare il cuore finanziario ormai infartuato della borghesia milanese e della finanza cattolica italiana. Stabiliscono che venerdì 6 agosto sarà l’ultimo giorno del vecchio istituto. Lo fanno con durezza: «Non concedo nulla», scrive con sintesi tacitiana Carlo Azeglio Ciampi nei suoi diari, nelle ore concitate di quel fine settimana. E scelgono Bazoli per firmare – l’8 agosto 1982 – l’atto di cessione dei liquidatori del Vecchio Banco Ambrosiano al Nuovo Banco Ambrosiano. Lunedì 9 agosto riaprono le 107 filiali. Soltanto le insegne vengono cambiate. A lui in qualità di presidente, e al direttore generale Pier Domenico Gallo, è affidato l’inizio di una nuova storia.
In quella Fiat Cinquecento, c’è molto del rigore personale e del culto della distanza dalle cose del mondo (pur stando immerso nelle cose del mondo) che ha caratterizzato Giovanni Bazoli, nella sua dimensione di uomo pubblico e di banchiere. «Conobbi Bazoli – dice Giulio Sapelli, comunista e cattolico – a un incontro con David Maria Turoldo, a Brescia, alla Morcelliana. Era parte del milieu di Mino Martinazzoli». Bazoli, pienamente immerso in quella “brescianità”, si trova dunque a esercitare – quasi non per motu proprio – il lavoro del banchiere. A vincere le sue esitazioni, è proprio Ciampi: «Io sono laureato in lettere e faccio il banchiere centrale, lei insegna diritto, ce la farà benissimo». Il gruppo affidato a Bazoli è integro, anche se questi ha il mandato di Andreatta e di Ciampi a sciogliere gradualmente i nodi lasciati da Roberto Calvi nella Centrale, che controllava la Cattolica del Veneto, il Credito Varesino, Toro Assicurazioni e Rizzoli. Sulle dinamiche della banca e soprattutto dei suoi cespiti, si appuntano gli sguardi del governatore emerito della Banca d’Italia, Guido Carli, e di Bettino Craxi, il segretario del Psi nella sua versione più aggressiva e modernizzatrice.
È in particolare Rizzoli, di cui il Nuovo Banco Ambrosiano è sia azionista (con il 40% del capitale) che creditore, a suscitare l’interesse – sempre secondo i diari di Ciampi – di Carlo De Benedetti e di Gianni Agnelli. Il 21 ottobre 1982 Rizzoli, prostrata dal virus gestionale e morale della P2, va in amministrazione controllata. Alla fine, Rizzoli finisce nell’orbita degli Agnelli: «12-14 settembre 1984. Ore 18: Maccanico. Ha visto Cuccia che si interessa del Corriere della Sera: Agnelli è disponibile. Si dovrebbe formare un gruppo omogeneo attorno ad Agnelli, disposto a prendere il 40%». Nell’appunto di Ciampi, il segretario della Presidenza della Repubblica, Antonio Maccanico, ha incontrato Cuccia: l’Avvocato ha superato le riserve iniziali, tracciando un cerchio che si chiuderà quando, poco prima di morire il 24 gennaio 2003, egli chiederà a Bazoli di vegliare su Via Solferino, conferendogli un carisma che durerà a lungo.
La traiettoria del potere e della responsabilità, che in Italia si delinea non poco nella capacità di influenzare e determinare gli assetti del Corriere della Sera, fa il paio con l’attività da banchiere, nella sua quotidianità operativa e nella sua capacità di elaborare strategie di medio e di lungo periodo. «Bazoli – riflette un altro banchiere cattolico di lungo corso come Roberto Mazzotta – è stato molto bravo a gestire la prima fase. La ricostruzione del perimetro, l’ordine dei conti, la definizione di nuove procedure, il rapporto con la clientela. È allora che il Nuovo Banco Ambrosiano getta le basi per essere soggetto attivo, e non passiva, nella rimodulazione del paesaggio bancario».
Il 31 dicembre 1989, dalla fusione fra il Nuovo Banco Ambrosiano e la Banca Cattolica del Veneto, nasce il Banco Ambrosiano Veneto. «Nell’Ambroveneto – osserva lo storico Giandomenico Piluso – la mano di Bazoli e del management da lui scelto, prima Carlo Salvatori e poi Corrado Passera, si è avvertita in un aspetto poco considerato: gli investimenti in informatica hanno reso il nuovo istituto un elemento di concreta modernizzazione del panorama italiano». Nel banchiere, la componente industriale è in una dialettica continua con la visione strategica e “politica” alta. Che è mutevole ed efficace, quanto è in rapido cambiamento lo scenario. «La Legge Amato del 1992 assorbiva le idee di Andreatta e dell’ufficio economico della Democrazia Cristiana – ricorda Mazzotta – secondo cui le casse di risparmio, a cui si riferiva oltre un terzo degli impieghi e dei depositi, andavano privatizzate e dovevano diventare il perno nel nuovo sistema bancario». La privatizzazione delle casse di risparmio e il conferimento delle quote dell’Imi a Cariplo e a Iccri avrebbero cambiato tutto. La prima parte si realizzò. La seconda no, perché mutarono gli equilibri politici, con Tangentopoli e la fine della Prima Repubblica.
Negli anni Novanta, nell’equilibrio fra politica ed economia, la componente culturale del cattolicesimo democratico, che ha in Benianimo Andreatta il fondatore nella politica economica, in Romano Prodi l’artefice dell’Ulivo e nel cardinale di Milano Carlo Maria Martini il riferimento spirituale e carismatico, prende corpo e diventa sempre più centrale. «Anche in coerenza con lo spirito dei tempi – osserva Mazzotta – la banca guidata da Bazoli è diventata ancor più soggetto aggregatore. Non a caso, nel 1997 la Fondazione Cariplo ha scelto l’Ambroveneto come partner, dando così vita a Banca Intesa». In quella occasione, si è cementato l’asse fra Bazoli e Giuseppe Guzzetti, dominus della Fondazione ed espressione della cultura democristiana riferibile all’esempio storico di Giovanni Marcora, contigua a quella di antica ascendenza martinazzoliana di Bazoli. In quella occasione, il nuovo aggregato ha pure migliorato il suo profilo organizzativo e gestionale. «La Cariplo – nota Piluso – si era retta per decenni sugli enormi flussi finanziari e senza vincoli degli enti locali lombardi. Aveva poca tecnologia. I milanesi lo ricordano bene. In breve, grazie all’informatica del gruppo le vecchie filiali sono diventate molto avanzate».
Banca Intesa è ormai uno dei baricentri del sistema, che sta vivendo una profonda riconfigurazione. La sua funzione è di piena centralità. Nel 1999, per reagire all’Opa ostile di Unicredit, la Comit che fu di Raffaele Mattioli – con le sue attività internazionali non scevre da mille problemi e il suo enorme patrimonio culturale e archivistico – accetta l’integrazione amichevole con Intesa. E, questo, in una condizione strategica e umana di pace e di vicinanza di Bazoli con Enrico Cuccia, in una ricomposizione personale che archivia la distinzione novecentesca fra finanza laica e finanza cattolica.
Nel 2006, con Mario Draghi in Banca d’Italia, tocca a Sanpaolo Imi, che tecnicamente procede a una fusione alla pari con Intesa Bci. Nella complessità dei rapporti con la cultura e la politica (diverse volte emerge il nome di Bazoli per Palazzo Chigi e per il Quirinale), con i regolatori e la finanza, Bazoli ha costruito la prima banca italiana e la terza per capitalizzazione nell’area euro e ha elaborato un modello alternativo al mainstream anglosassone, difendendo le sue posizioni in una intervista al Financial Times del 23 febbraio 2014: «Oggi va per la maggiore l’opinione comune che la causa dei fallimenti del sistema economico e finanziario italiano sia il cosiddetto capitalismo di relazione. Al contrario io penso che dobbiamo considerare che la storia di qualsiasi società, così come quella di ogni gruppo sociale, famiglia e nazione, sia sempre una storia di relazioni. L’unico vero problema delle relazioni che intervengono negli affari è un altro: è una questione di qualità delle relazioni, se esse sono positive o negative, corrette e trasparenti oppure corrotte e intricate».
La storia di un Paese è fatta di relazioni e di personalità che condizionano le grandi organizzazioni. Significa una Fiat 500 che stupisce il grande banchiere pubblico. E uno stile che non fa solo l’uomo. «Qualunque cosa si possa pensare del Professor Bazoli – conclude Sapelli – è chiaro che la sua etica personale è sempre stata al di sopra di ogni sospetto. E questo ha fatto sì che le banche da lui presiedute non abbiano mai indugiato negli asset tossici e nei derivati. In questa pulizia manageriale e in questa lucidità strategica, ritrovo l’uomo che conobbi alla Morcelliana quasi quarant’anni fa».

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Giorgio Meletti per il Fatto Quotidiano
È come avere davanti il proprio film”, ha detto ieri Giovanni Bazoli, detto Nanni, all’ultima assemblea da presidente di Intesa Sanpaolo. Ha fatto il modesto come al solito, l’arma segreta con cui ha battuto i più cinici pescecani (vedendolo pacato e remissivo, lo sottovalutavano). Ieri tutta l’Italia ha rivisto il suo film, iniziato il 3 agosto 1982, “quando fui designato a presiedere il Nuovo Banco, nato sulle ceneri del Banco Ambrosiano, essendo stato indotto ad accettare quella temeraria sfida da Carlo Azeglio Ciampi, allora governatore della Banca d’Italia, e da Nino Andreatta, allora ministro del Tesoro”. Poche settimane prima il banchiere Roberto Calvi era stato trovato impiccato sotto il ponte dei Blackfriars. Il caso Ambrosiano è stato come oggi Popolare di Vicenza più Banca Etruria (c’era già Flavio Carboni di mezzo!) moltiplicato per dieci più il morto.

Bazoli è un tranquillo avvocato bresciano, sta per compiere 50 anni ed è amico di Andreatta. Porta nei cromosomi la predisposizione al potere. Suo padre Stefano è deputato democristiano alla Costituente e ha lo studio legale con suo cognato Lodovico Montini, fratello maggiore di papa Paolo VI. Nel film di Nanni scorrono i fotogrammi, non il tempo. Appena nominato presidente del Nuovo Ambrosiano, Bazoli viene ricevuto dal presidente della Regione Lombardia Giuseppe Guzzetti (sì, lui, l’attuale signore delle Fondazioni bancarie) che gli rivolge una “pressante sollecitazione” in favore dei piccoli azionisti che hanno perso i loro risparmi nel crac di Calvi. Bazoli risponderà con l’emissione del famoso warrant. Altri tempi, altri democristiani. Nella parabola di Bazoli si riconosce il potere in tutte le sue sfumature.
Lui lo rivendica in nome del bene comune. Mette se stesso a misura dell’etica, un’assunzione di responsabilità per i suoi estimatori, una prova di arroganza per i detrattori. Dirà di aver compreso nei terribili anni dell’Ambrosiano “come sia utile e non solo doveroso chiamare bene il bene e male il male, senza opportunistiche mistificazioni”. Oggi bisogna riconoscere che fu soprattutto una prova di coraggio. Tre anni prima, nel luglio 1979, Giorgio Ambrosoli era stato ucciso per aver distinto il bene e il male nel crac della banca di Michele Sindona. Attorno a Calvi l’ambientino non era più rassicurante. Dirà Bazoli: “La vicenda era totalmente immersa in un mondo e in una pratica di illegalità che arrivava a toccare anche ambienti malavitosi”.
Chi non ha vissuto quei tempi non capisce il significato del derby tra finanza cattolica e finanza laica, e lo stesso Bazoli, che gli ha dedicato la vita, ha smesso di parlarne. Eppure è in nome di quella battaglia che il mite avvocato, pendolando per anni in treno tra Brescia e Milano come un impiegato qualsiasi, ha costruito sulle ceneri dell’Ambrosiano la più grande banca italiana, Intesa Sanpaolo. Prima fu Ambroveneto con l’annessione della Cattolica del Veneto, poi Intesa-Bci strappando all’arcinemico di sempre – Enrico Cuccia, dominus di Mediobanca e regista della finanza laica – il gioiello Comit. Nel 2007 l’ultimo colpaccio, la conquista di Sanpaolo-Imi. Ha fatto tutto con poco più di un milione di stipendio all’anno in un mondo dove rampanti senza valore hanno facilmente portato a casa dieci volte tanto. E senza mai suscitare sospetti. Anche quando Intesa ha prestato 1,8 miliardi (senza garanzie) al suo amico del cuore Romain Zaleski per giocarseli (e perderli) in Borsa, nessuno ha avuto il coraggio di accusarlo.
Bazoli trova nella pancia dell’Ambrosiano il 40 per cento della Rizzoli ed è dunque arbitro del futuro del Corriere della Sera. Dice subito che quel pacchetto sarà venduto quanto prima. Subito si fa avanti Carlo De Benedetti, Bazoli lo stoppa con brutale cortesia costringendolo a un’imbarazzata retromarcia del tipo “facevo per dire”. Dopo 34 anni Bazoli dirige ancora il traffico in via Solferino e ha appena benedetto la scalata di Urbano Cairo per mettere fine al caos di un azionariato perenne lite. Proprio nel tempio della cultura laica ha fissato il punto di equilibrio tra laici e cattolici. Sete di potere, dicono i suoi nemici, ma senza ambizioni personali. Nel 1999 Andreatta lo indicò come candidato premier per il centrosinistra poche ore prima del malore che gli fu fatale, Bazoli si tirò indietro senza clamori. È stato nella finanza italiana l’altra faccia di Enrico Cuccia. Quello, vent’anni più vecchio, cercava di tenere in piedi la sgarrupata compagnia dei capitalisti senza capitali, Bazoli ha tentato di disciplinare il legno storto dei cosiddetti banchieri cattolici, politicanti di provincia incapaci di affrontare con lucidità numeri con oltre sei zeri.
Come Cuccia, anche Bazoli ha fallito, e gli ultimi mesi, si pensi allo scandalo Ubi Banca, ne offrono la prova. L’obiettivo era forse troppo ambizioso. Ma del loro duro quanto inutile duello rimane una preziosa lezione di stile. Quando Cuccia cominciò a declinare, Bazoli gli rese omaggio. Prima esultando per il declino di Mediobanca: “Abbiamo resistito ad assalti provenienti da questo gruppo di potere quando era quasi onnipotente e non indebolito come oggi”.
Poi irridendo i giornalisti che solo al crepuscolo trovavano il coraggio di criticarlo: “È un vizio italiano cambiare tono quando un centro di forza o un uomo è in difficoltà. Io ho stima del dottor Cuccia. Non l’ho mai detto quando era inattaccabile, ma lo dico oggi”. E così, oggi che se ne va in pensione, anche a noi tocca dire che bisogna avere stima di Nanni Bazoli.