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 2016  aprile 28 Giovedì calendario

Essere presi in giro alle 5.30 del mattino ogni giorno che Dio manda in terra. Succede sulla linea Como-Milano, quella dei pendolari

Il treno non parte neppure. Il controllore delle 5,50 per Milano da Como Lago sa che alla stazione di Borghi, l’altra fermata di Trenord in città, salgono una ventina di portoghesi. Per la verità non hanno l’aria lusitana, sono tutti neri come l’ebano e non paiono neppure parlarlo, il portoghese, non sono cioè neppure angolani o mozambicani, che si esprimono la lingua di Pessoa. No, questi discutono fra loro in una lingua africana. Discutono e ridacchiano, aspettando il controllare le cui urla si avvicinano progressivamente lungo il vagone unico di questo nuovissimo trenino lombardo. Dopo un po’ si riconosce una voce femminile: infatti il capotreno è una signora sui 40, capello abbastanza corto sul collo e un forcina civettuola a fermarle la frangetta sulla fronte. Sentendo le sue urla crescere di intensità, ricordo di colpo una lezione di fisica della seconda superiore e rivedo la curva delle onde sonore dell’effetto Doppler: le onde sono più forti nella direzione in cui viaggia un corpo che le emette e meno in quella opposta. La signora non vuol dare ripetizioni di onde o di quanti, semmai vuol fare una lezione di educazione civica ai passeggeri africani senza biglietto: «Non avete 10 anni», strilla, «o timbrate i biglietti o scendete». E ne fa uscire altri tre da una toilette. Sentendola arrivare, una coppia di colore, vicino a me, trentenni scarsi, ben vestiti, lei col pancione, preferisce scendere, mentre un gruppetto di quattro, non lontano, sghignazza come se fosse di adolescenti in gita e aspetta il proprio turno.
Dopo cinque minuti, ecco uscire il macchinista, imbufalito: «Tutte le mattine ’sta storia», sacramenta. Guardando un paio di pendolari che, dintorno, annuiscono, capisco che questa commedia antelucana si ripete appunto ogni giorno che Dio manda in terra nell’alba lariana. Se il capotreno è di quelli che fanno rispettare la legge, allora i furbetti scendono alla macchinetta, timbrano, risalgono. Non tutti, eh. C’è chi, questa possibilità, non l’accetta, o perché non vuole comprare il biglietto valido e tenerlo intonso nel portafoglio, un investimento diciamo, o perché si indispettisce di questo zelo all’alba o, ancora, perché c’ha da rifare il solito discorso sul Nord del mondo, colonizzatore e sfruttatore. Sta di fatto che a un certo punto alle urla della capotreno si aggiungono quelle di un paio di portoghesi-africani di vattelapesca.
Allora il macchinista avanza a larghe falcate verso il centro treno, sbuffando come doveva fare la nonna del locomotore che oggi conduce, o vorrebbe condurre, nella stazione di Milano Cadorna. Lo segue un pendolare in mimetica e non è il solito invasato «law & order» ma, e lo capirò solo vedendolo tornare, un maresciallo dell’esercito che va a lavoro in fase di allerta per cui è vestito da combattimento. Con le stellette e col piglio marziale, insieme al macchinista, metteranno in riga gli insubordinati. Il problema è che ormai sono le 6 e il treno non s’è mosso di un metro. La capotreno arriva fino a un altro gruppo di passeggeri di colore: due scendono a timbrare, gli altri mostrano biglietti per poche fermante ancora, ma lei dimostra di capire che è un escamotage e che in realtà si conta di procedere col viaggio ben oltre, una volta superato il primo controllo, e quindi a un prezzo minore. «Torno», dice squadrando quei giovanotti che sono il doppio di lei e lo fa senza più nemmeno la tutela del macchinista, che finalmente ha fatto partire il treno, né del maresciallo allertato. «E domani ci sono ancora», sibila andandosene.
Loro, i portoghesi che non parlano come Cristiano Ronaldo, continuano a ridere: gente allegra il Ciel l’aiuta, diceva mia nonna. Chi non è allegro, anzi si sta vieppiù incazzando, è il sottoscritto, perché vede questo ritardo da commedia dell’arte ripercuotersi sulla metro necessaria per arrivare alla Stazione centrale dove incombe un treno per Roma. A Saronno, la capotreno come una saetta si abbatte sui corto-viaggianti: secondo il biglietto dello schermo sarebbero dovuti scendere due fermate prima, ma lei, probabilmente, non poteva tornare fino a quella carrozza, oppure, chissà avrà voluto tirare il fiato dall’incazzatura. «Scendereeee», intima. E i due, ancora ridacchiando, si scambiano battute in nonportoghese, mentre uno parla al cellulare.
A quel punto mi inquieto anche io e un pendolare che mi siede di fronte. Caccio un urlo, forse per la prima volta in vita mia alle 6,15 del mattino. Mi esce un «alloraaaa», che mi pare ridicolo un secondo dopo, mentre più appropriato risulta il mio compagno di posto che sillaba, con voce stentorea, «dob-bia-mo-an-da-re-a-la-vo-ra-re». Fa capolino il maresciallo, ancora senza basco ma con la faccia sempre più arrabbiata e i due scendono. Ridacchiando ancora. Salutando dalla banchina i due rimasti dentro, o forse irridendo il loro utilizzo pieno di biglietti da 4,7 «euri». A Milano, alla fine, i minuti di ritardo sono solo 10 e, mentre corro verso la metro, mi domando se queste considerazioni possano passare per razzistiche o no. E di quanta xenofobia ci possa essere nel non tollerare che una signora che fa il suo lavoro, all’alba, si debba prendere le urla o i risolini di scherno.
Nell’Italia del politicamente corretto, l’ha detto bene Gianfranco Morra da queste colonne sabato scorso, il tema dell’immigrazione, nella sua complessità e nell’assenza di soluzioni sempre con l’happy end, non si può affrontare. Usare elementi critici, riferire particolari non proprio esaltanti, significa scegliere di prendersi appunto del razzista. Però, il treno all’alba, da Como a Milano, insegna che difficilmente i problemi si risolvono da soli e che, a fronte di una ventina di africani che ridono, ci sono poi i ragazzotti latinos che usano il macete.