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 2016  aprile 28 Giovedì calendario

Marcenaro salva magistrati («se fossi un magistrato vi farei un culo a tutti così») e spara a zero sui giornalisti («i cattivi sono tutti gli Aldo Cazzullo che intervistano Davigo come un Dio»), se la prende con Berlinguer («con la questione morale ha rovinato il paese»), perdona Renzi («fa la battaglia quando capisce di poterla fare un po’. Ma è pur sempre più coraggioso di un Pier Ferdinando Casini»), butta giù Di Maio («un democristiano finto che fa l’estremista») e dice che nel M5s « c’è tutto, seppure a livello del salumiere. C’è il salumiere di sinistra, di destra, di centro». La Versione di Andrea

La sua versione è pane quotidiano dei lettori del Foglio, che trovano nella Andrea’s version, un distillato quotidiano di ironia sapientemente dosata, specialmente se applicata a certi eccessi delle procure o del mondo, anche politico ma soprattutto culturale e informativo, che sta sempre con le toghe. Anni prima, infatti, frustrava il giustizialismo patrio con «Casa Flores», avendo di mira i tic del mondo del direttore di Micromega, il filosofo Paolo Flores d’Arcais. Da Andrea Marcenaro, genovese, 1947, allora bisogna correre per capire questi tempi in cui fra magistratura e politica sembra esplodere di nuovo una guerra guerreggiata. Anche a costo di andare a casa sua, a Roma, perché «no, per telefono no, l’intervista ché mi rompo le balle». La chiacchierata si svolge in un salottino le cui pareti sono un album di famiglia: moglie, figli, nipoti. C’è persino una foto di lui, in giacca e cravatta, in una piazza imbandierata di rosso che potrebbe essere Hanoi.
È tornato Piercamillo Davigo, caro Marcenaro, e l’intervista le tocca.
«Ma non ce l’ho con loro».
I magistrati?
«Certo. Trovo che siano una categoria meravigliosa! E facessi il magistrato vi farei un culo a tutti così. Chi mi dovrebbe trattenere? La libera stampa».
Me la spieghi, per favore.
«Sono 30 anni che ce l’ho coi magistrati ma ho capito d’aver sbagliato. I cattivi non sono loro».
Ne deduco che sia la libera stampa.
«Certo, sono gli Aldo Cazzullo che intervistano Davigo come un Dio».
Addirittura.
«Sì e non gli fanno neppure una contestazione; i Michele Serra, che giocano la partita doppia tripla e dicono: «Loro fanno il lor mestiere, siamo noi a dover migliorare». Insomma, siamo all’auto-imbavagliamento della stampa, quando poi c’è l’entusiasmo di tutti se un’organizzazione internazionale, di gente che piglia 12mila euro il mese per far queste belinate, dice che siamo 87esimi nella graduatoria della censura. E i giornalisti, felici!».
Insomma, il tour de force di interviste di Davigo non l’ha sorpresa.
«Ma no, che lui faccia le sue sparate, un po’ barbare, sono la cosa più normale del mondo. Se gliele lasciano fare. Anzi, sa cosa le dico?».
Che cosa?
«Che la vera separazione delle carriere dovrebbe essere, non la solita fra pubblici ministeri e magistratura giudicante, ma questa, fra toghe e giornalisti».
Vale a dire?
«Che la carriera, chessò, di Liana Milella, fosse sganciata da quella di Davigo, che quella Giovanni Bianconi deve essere sganciata da quella del pm palermitano Roberto Spampinato, quella di Gianluigi Nuzzi da quelle di tutti le carriere di tutti i magistrati di cui ha scritto o da quella di qualche cardinalone».
Come faccio a scrivere queste cose?
«Ah, non lo so. Veda lei».
Lei è stato condannato per diffamazione per aver fatto «domande insinuanti”, come è accaduto in Sicilia anni fa, e ora mi dà delle risposte insinuanti? Dunque è colpa dei colleghi?
«Non solo, non solo. C’è il Pci e tutti i suoi cascami attuali».
Vabbé, scusi ma Matteo Renzi qui è in lotta.
«Ma che c’entra, Renzi fa quel che può, con qualche difficoltà culturale e qualche tentennamento, come ovvio in politica, a smontare una macchina mostruosa, che ha rovinato il paese ed è stata messa in piedi da Enrico Berlinguer».
Intende con la «Questione morale»?
«Con la differenza antropologica e la questione morale è stato rovinoso. E tutto per reagire al riformismo di Bettino Craxi, che non era quello pro-Unione sovietica di Pietro Nenni, e faceva concorrenza al Pci. Così, alla fine, Craxi sarà accoppato e mandato ad Hammamet, con l’Italia intera che, come un sol uomo, s’alzò a osannare la memoria di Berlinguer, quello che l’aveva rovinata. Non che Berlinguer fosse una cattiva persona, intendiamoci».
Ah, ecco.
«Ossia, è stato una pessima persona essendo stato comunista, come me. Io lo sono stato. E non sono pentito di esserlo stato, anzi mi è servito moltissimo».
In che senso le è servito?
«Un mondo che ho conosciuto. C’ho fatto quasi tutte le cazzate che vi si potevano fare».
Compreso il famoso brindisi in morte del commissario Luigi Calabresi, di cui poi dichiarò d’essersi vergognato.
«Certo, compreso quello».
Torniamo a Berlinguer e la giustizia.
«Si alleò coi magistrati. Un mondo, quello di Magistratura democratica che raccontò molto bene Elio Veltri, magistrato a sua volta, nel suo Le toghe rosse (Baldini & Castoldi)».
Renzi oggi fa il possibile, diceva lei prima.
«Con qualche mitezza, sennò se lo tritano, giustamente. Fa la battaglia quando capisce di poterla fare un po’. Ma è pur sempre più coraggioso di un Pier Ferdinando Casini, tanto per citare un altro democristiano».
Infatti, alla Leopolda 2013, sull’assoluzione di Silvio Scaglia fu molto duro, altre volte lo è meno.
«Certo, ogni tanto ha delle uscite che aprono un po’ il cuore, come quella. Altre volte si muove male, però non mi sento di dare la croce addosso a lui che, pur non affrontando di petto la questione, non la favorisce certo e, quando può, un po’ reagisce».
Ma questa eco diffusa e positiva alle uscite di Davigo come se la spiega? Gli Italiani sono tornati quelli del 1992, c’è voglia di forca come allora?
«Non credo che ci sia voglia di forca. Perché gli Italiani capiscono che il rapporto coi soldi pubblici non è lo stesso che si ha con quelli privati, cioè finché ci sarà una grande presenza dello stato, sarà sempre così».
Qui viene fuori il suo liberalismo.
«Ma no, i liberali mi stanno anche sul culo, si figuri. E non è necessario neppure essere troppo liberali, per non poterne più di questa invadenza dello Stato, eddai».
Insomma non vede rivoluzioni elettoral-giustizialiste.
«Non so se gli Italiani si affideranno al M5s. A Roma, per esempio, una città che vive di pubblico, i romani potranno dare le chiavi del Campidoglio a un partito che senza saper bene quello che fa, afferma che «segherebbe» tutti i dirigenti, i funzionari? La vita di una città si consegna a chi la vuol troncare? Se ci sarà un ballottaggio, credo che non lo vinceranno».
Un parere in controtendenza il suo. Virginia Raggi non ce la farebbe, lei dice. Che effetto le fa Roberto Giachetti, un vecchio garantista, che dice di voler sottoporre preliminarmente le liste alla Commissione Antimafia?
«Che le devo dire. Ne ho scritto anche sul Foglio. Mi pare fuori dal mondo che un radicale vada da Rosy Bindi a farsi vidimare le liste è pazzesco. Piuttosto vada da Davigo, si accontenta di una sottospecie. Mi spiacerebbe che il mio voto fosse vidimato dalla Bindi. Insomma, un uomo libero..».
Vuol dire che le cose sono davvero messe male per il Pd?
«Vuol dire che lui è un essere umano, consigliato forse un po’ coglionescamente».
Ce la con gli spin doctor pure lei?
«Massì, Giachetti va a Torre Maura in metro senza neanche un giornalista, poi torna e dice ho parlato con tre venditori ambulanti. C’è qualcosa che non va».
Lei dice che i M5s non ce la faranno a Roma. Ma che idea se ne è fatto?
«Sono la cuoca andata al governo, il leninismo che raggiunge la sua massima soddisfazione. Davvero poca cosa. Oh, non alcun disprezzo per i giovani che provano a fare le cose, ma alla scuola di Gianroberto Casaleggio, o di Beppe Grillo, le cose non possano andare. Insomma, basta vedere Luigi Di Maio».
Cosa c’ha Di Maio?
«Ma insomma nel Paese più bello del mondo, trovo esteticamente grottesco questo democristiano finto che fa l’estremista. La quintessenza della bruttezza, del comico inconsapevole».
Ma se l’accostano a Massimo D’Alema!
«Ma nooo. D’Alema c’ha un suo “cuoraccio”, coi suoi asti, i suoi odii, e anche con le sue idee, che ha avuto o ha provato ad avere. No, no la prego non faccia anche lei questi accostamenti. Di Maio ha 29 anni, per carità. È un... stavo per dire un “De Gasperi dei piccoli” ma non va bene, perché il leader democristiano fu una grande e tragica figura. Lui al massimo potrebbe un “Mastella dei ragionieri”, ma non va bene neanche questa, mi scusi».
Beh, perché anche Mastella, nella sua vicenda politica, un paio di acuti li ha dati.
«Infatti, un suo coté drammatico l’ha avuto anche lui. Ma del M5s mi spaventa l’eredità di Casaleggio, l’idea della fattoria del sole, coi seguaci che si uccidono».
Lei si riferisce al libro che scrisse?
«Sì, con quel finale in stile reverendo Jones».
Quello del suicidio di massa della Guyana, nel 1978.
«Eh, appunto. Dei grillini mi spaventano le sirene, i chip, le scie chimiche».
Ma lei che è stato un uomo della sinistra estrema, il movimento di Beppe Grillo ha una matrice di sinistra o, come qualcuno dice, di destra?
«Ah c’è tutto, seppure a livello del salumiere. C’è il salumiere di sinistra, di destra, di centro: è il distillato del bar. D’altra parte qui, con Mani pulite, abbiamo distrutto tre classi dirigenti, di che cosa ci lamentiamo? Distrutte e senza pagare pegno, senza rivedere un giudizio o riconsiderare l’esperienza».