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 2016  aprile 28 Giovedì calendario

Damien Hirst e l’arte del cibo. L’artista che da ragazzino rubava le bistecche e che mise l’orecchio di un morto sulla pizza ora vuole spargere antidolorifici sulle ostriche. Benvenuti al Phamarcy 2

Damien Hirst arriva presto per il pranzo allo Scott’s a Mayfair ed è l’unico in una sala piena di uomini in giacca e cravatta a indossare t-shirt e jeans. Ci raggiungerà Mark Hix, chef e ristoratore. A febbraio i due hanno aperto un ristorante nella galleria di Hirst, la Newport Street Gallery a Vauxhall, zona sud di Londra, ma è qui allo Scott’s che è nato il loro sodalizio. «Stavo pranzando seduto fuori, quando Mark accostò con lo scooter», racconta Hirst. «Mi chiese: “Come va il tuo ristorante?” e io risposi: “Male, ho appena licenziato lo chef”. Lui mi disse: “Sarò io il tuo chef”». Il nuovo ristorante, Pharmacy 2, richiama un vecchio locale che aveva aperto nel 1998 assieme all’esperto di pr Matthew Freud a Notting Hill. Era era stato inaugurato nel momento culmine della fama dell’artista, quello dello Squalo alla Saatchi e chiuso senza gloria cinque anni più tardi.
Hirst ha lavorato nel tempo con diversi chef. Prima che ci raggiunga Hix, ci tiene a dire che stavolta sarà differente. Intanto ha smesso di bere («la miglior cosa che io abbia mai fatto»). In più, saggiamente, lascia fare a Hix ciò che ritiene giusto. «Mark mi dice quello che devo mangiare», spiega. Hix arriva proprio in quel momento.
Hirst: «Te la sei spassata ieri sera? Ho cercato di prenotare per me e mio figlio al Pharmacy 2, ma era chiuso. Continuo a scordare che non siamo aperti di domenica sera. Mi sono preso un caffè, poi sono salito al museo e quando sono sceso tutte le sedie erano sui tavoli e mio figlio stava seduto lì da solo…».
Hix: «Che cosa mangi, capo?».
Hirst: «Per cominciare prenderò delle ostriche selvatiche, poi vorrei fish and chips».
Parliamo dei parallelismi tra artisti e chef: creano da zero, guidano delle équipe, non hanno un minuto libero ma tante scadenze. Il movimento YBA (Giovani Artisti Britannici) a cui appartiene Hirst è cresciuto negli anni ’90, durante la renaissance della cucina britannica dell’East End londinese.
Hix: «Ci siamo conosciuti nei giorni difficili, quelli dell’assenzio».
Hirst: «L’assenzio non era cosa per me. A quanto pare non funzionava. Ciò che io evito sono tequila e cocaina».
Mentre parla, gettando un occhio critico ai quadri appesi alle pareti, Hirst continua a muovere una spalla e a sfregarsi il braccio al quale sembra avere delle fitte. Gli chiedo che cosa non vada. Risponde di avere un bicipite dolorante.
Hirst: «Io faccio yoga. Tre volte alla settimana. Avevo una postura pessima, ora va meglio. Sto mandando un messaggio perché tramite il mio autista mi mandino degli antidolorifici. Li schiaccerò per poi cospargerli sulle ostriche. Ecco un’idea: potresti servire ostriche al Viagra al ristorante. Quando abbiamo aperto il Pharmacy I, ho pensato che il ristorante sarebbe continuato in eterno, al contrario delle opere d’arte. Al vecchio Pharmacy una volta mi arrabbiai perché uno dei buttafuori, che mi aveva pescato con la droga in mano nella toilette, si rifiutava di mandarmi via – perché era il mio ristorante. Gli dissi: “Devi farlo. La droga è un grande problema in questo locale”. Non ci fu verso. Mi svegliai con la coda tra le gambe, come sempre».
Hix: «A Berlino ci starebbe bene un Pharmacy».
Hirst: «Ci starebbe bene dovunque. Devi però perfezionare le patatine con il tartufo. L’altra sera ho cenato lì con la mia ragazza e lei ha tolto i pezzettini di tartufo dalle patatine e me le ha dati».
L’artista spiega come in questo momento stia lavorando al recupero di certe sue opere che ha lasciato andare a fondo nel mare vicino alla costa messicana vent’anni fa. «Erano delle cose che avevo fatto e che volevo ricoperte di corallo», spiega. «Cose finte, cose vere. Tesori». S’immerge per recuperarle?
Hirst: «No, sono da sempre terrorizzato da un possibile titolo che dica: “Damien Hirst è stato mangiato da uno squalo”. Non sono il tipo. Mi spaventa già la piscina. Devo avere sempre un piede che tocca terra. Non ci sono molte cose delle quali mi pento. La mia ultima ricaduta nel bere risale a dieci anni fa, il 9 novembre. È successo al Groucho Club, e sapevo che ero vicino alla fine, quindi mi sono sistemato dietro il bancone. Poi ho avuto un incubo infernale, sette giorni di orrori. Quando ne sono uscito sapevo che non avrei bevuto mai più. Il peggio, però, è stato che avevo scordato di bere un Ricard, il mio drink preferito da sempre. Mi pento ancora oggi. Perché non ho bevuto un Ricard? È una cosa che mi perseguita».
Mentre il pranzo procede parliamo ancora del rapporto tra arte e cibo.
Hirst: «Sono geloso degli chef, perché il cibo è arte senza la prova tangibile. Dopo vent’anni le persone dicono ancora “Ricordo quell’incredibile pranzo”. A me riesce bene il curry thailandese. Nel Devon coltivo citronella. Ho due serre».
Il cibo è sempre stato importante per lui, spiega, ma spesso gli ha creato dei problemi.
Hirst: «Rubavo del cibo da un magazzino per preparare a casa il pasticcio di carne. Una volta mi hanno beccato per aver rubato tutto un’intera rastrelliera di bistecche con l’osso da dove lavoravo. Un’altra volta, ero nell’obitorio a fare disegni di anatomia. Un giorno portai via un orecchio umano. Era tutto nero, perché gli studenti di medicina ci avevano lavorato. Hugh, con il quale lavoro ancora, si era comprato una pizza. A un certo punto si girò e io gli misi l’orecchio in mezzo alla pizza. Lui ci ritagliò attorno un cerchio, lasciò la parte con l’orecchio e si mangiò il resto».
La conversazione si sposta ai lavori che Hirst sta producendo per una delle sue “serie infinite”. L’ultima opera sarà costituita da un milione di punti di colori differenti di un millimetro ciascuno. Gli ci sono voluti tre mesi per contarli, dice. Immagino che ci siano in giro molti falsi.
Hirst: «Lavoro con una società che si chiama Hiac, Hirst Authentication Committee. Le persone falsificano la mia firma e vendono i dipinti su eBay. Falsificano di tutto. È curioso come siano cambiati i tempi. Ricordo un conoscente che mi comprò un dipinto per 50 sterline perché lui aveva un lavoro e io no – fu un gesto tenero. Ricordo che una volta andai con Angus Fairhurst, il mio amico morto suicida, a comprare un rotolo di plastica a bolle d’aria, e quanto fossimo felici dopo: “Ce l’abbiamo fatta!” perché potevamo permetterci di impacchettare i nostri lavori. Lo dividemmo metà per ciascuno».
Ritorna mai a Leeds, la sua città di origine?
Hirst: «No. Mia madre ha traslocato a Londra, quindi non ne ho motivo. Per lavoro non mi serve. Non è come Margate per Tracey Emin. La cosa ora si è complicata: Tracey ora è una Dama o una maledetta Lady o qualcosa del genere, non è così?».
Forse ci sarà anche un Sir Damien… Hirst: «No. Non è cosa per me. Mi hanno offerto di diventare Comandante dell’ordine dell’Impero britannico, ma ho rifiutato. Mia madre si è arrabbiata moltissimo. Poi mi hanno richiamato chiedendomi che se avrei accettato se il titolo fosse stato quello di cavaliere. Ho risposto che non lo avrebbero mai saputo. Mark, tu accetteresti?».
Hix: «Penso di sì».
Hirst: «Io non potrei. Se poi arrivasse la rivoluzione ti ritroveresti appeso a un lampione. In ogni caso, ho una casa a Regent’s Park e i miei figli mi chiamano già “sir”. Che cos’altro mi serve? La casa è vicina alla moschea. Ho fatto vedere una foto a mia madre e lei ha esclamato: “È una casa a schiera!” A Leeds eravamo cresciuti in una casa a schiera prima di traslocare in una villetta unifamiliare. Il suo commento è stato: “Hai tutto quel denaro e hai comprato una casa a schiera”...».
Hix: «Potremmo aprire un Pharmacy a Leeds».
Hirst: «E che ne dici di Parigi?».
Hix: «E di Venezia? Dovremmo aprirne uno a Los Angeles. Potremmo trovare una vecchia fabbrica di medicinali e trasformarla in un albergo».