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 2016  aprile 28 Giovedì calendario

«Non ho perduto la fede, ma la fiducia nell’autorità morale della Chiesa». L’ex missionario Rolando Del Torchio racconta i suoi sei mesi di prigionia nella giungla filippina. Voleva morire

«Se fossi stato ad Auschwitz mi sarei buttato contro il filo spinato per farmi ammazzare. Come liberazione. Poi ho cominciato a studiare un piano per scappare, rubando un fucile col quale spararmi nel caso mi avessero ripreso: i fuggitivi li fanno a pezzi col machete. Ma era impossibile. E allora ho iniziato a sperare».
Rolando Del Torchio, 56 anni, è stato sei mesi (7 ottobre-8 aprile) nella giungla prigioniero dei terroristi islamici del gruppo Abu Sayyaf, che si ispira all’Isis ma non sarebbe collegato, nelle Filippine, dove il perito agrario lombardo vive dall’88. Prima come sacerdote missionario (ordinato nell’84 e dispensato nel 2008 su sua richiesta: «Non ho perduto la fede, ma la fiducia nell’autorità morale della Chiesa») poi come proprietario dell’UrChoice cafè a Dipolog sull’isola di Mindanao. Da lì lo rapirono verso sera 9 uomini armati a viso scoperto. Lunedì 25 aprile, giorno della Liberazione, è tornato a casa – 30 chili di meno – sul Lago Maggiore. Nello stesso giorno un canadese che era sequestrato con lui è stato giustiziato. Rolando avrebbe dovuto sposarsi in aprile: si vedrà. Si presume che la famiglia, non lo Stato italiano, abbia pagato un riscatto, ma è coperto dal segreto istruttorio.
Perché hanno rapito proprio lei?
«Credo che l’obiettivo fosse un prete, o ex per loro fa poca differenza, ai loro occhi benestante».
Dove l’hanno portata?
«Mi hanno caricato su un furgone, dopo una colluttazione. Sono stato picchiato solo quella volta e un’altra. Poi su due barche a motore. Abbiamo navigato dieci ore, siamo sbarcati, mi hanno tenuto in collina un paio di giorni a digiuno e poi sulla scogliera in attesa dei terroristi. I rapitori erano solo manovalanza. Un paio di loro avevano già rapito un altro sacerdote che mi aveva sostituito in missione per tre mesi nel ’99. Quattro guerriglieri di Abu Sayyaf sono venuti a prelevarmi dal mare e mi han portato, in due o tre giorni di navigazione, sull’isola di Jolo. Lì sono stato aggregato a un nucleo di circa 500 terroristi, in continuo movimento sulle montagne, braccati dall’esercito. Marciavamo ogni giorno per ore».
Come è stato trattato?
«Come un cane. Ho sempre dormito all’aperto, per terra, circondato da una decina di carcerieri. Solo dopo 4 mesi ho avuto un’amaca. Abbiamo mangiato solo riso con soia e talvolta un pezzetto di pesce secco o frutta cotta. Le mie razioni erano più scarse. Due pasti al giorno e alle 18 si dormiva».
Che rapporto aveva coi carcerieri?
«Nessuno. Sono molto puliti, perfino profumati, nonostante le lunghe barbe. Li ho visti pregare, cantare il Corano in arabo, scherzare raccontandosi le loro azioni di guerriglia. Mi chiamavano Lando. Quattro o cinque parole al giorno. Completamente indifferenti ai miei stati d’animo: disperazione, lacrime, sconforto. Mi hanno dato un Corano. Ogni tanto cercavano di impaurirmi dicendo come venivano ammazzati gli ostaggi. E al contempo mi ripetevano: “Collabora e finirà tutto bene”. Dopo un po’ hanno cominciato a domandarmi della vita occidentale».
Era informato delle trattative?
«Parlavo con due o tre capi, un paio di volte al mese mi facevano telefonare alla mia avvocatessa per darle istruzioni. Se non racconti balle, ti credono».
Come si sopravvive in una situazione simile?
«Preparandosi a morire. Non sapevo neanche più se fossi vivo: avevo il dubbio di essere già all’inferno. Ti accorgi che l’uomo non è fatto solo per sopravvivere: non ti basta respirare. Allora devi disconnettere il cuore dalla testa, non pensare più alle persone care sennò non reggi l’angoscia: vederti come un marinaio imbarcato per due anni. Ma non basta. Vedi il mare all’orizzonte, gli uccelli liberi. E tu lì: la cosa peggiore è non sapere per quanto. Non avevo più paura di morire, ma di vivere sempre in quella condizione. A un certo punto purché finisse ho chiesto di uccidermi: “Voi morite per una causa, per Allah, io per evitare la bancarotta alla mia famiglia”. Non pensavo di potercela fare, avevo tutto troppo contro».
E invece?
«E invece è scattato il bisogno di sperare contro ogni speranza, per citare San Paolo. Cantavo “fino alla fine Forza Rolando”, come il coro degli ultras del Bologna, la mia squadra. Parlavo con Dio: se devi farmi capire qualcosa, gli dicevo, è un po’ ingiusto come sistema. Sia fatta in cielo la tua volontà, ma in terra no, non così».
Quando ha capito che poteva sperare davvero?
«Neanche quando mi hanno annunciato la liberazione. Però nell’ultimo mese ho studiato la loro psicologia, cercato di capire quando e cosa dire o non dire. Dopo cinque mesi mi hanno tolto le catene di notte. Alcuni carcerieri mi passavano le sigarette di nascosto dal capo».
Ha parlato con altri sequestrati?
«No, solo scambiato sguardi. Due canadesi, una filippina e un norvegese».
Non hanno registrato video?
«Sì, incappucciati, con la bandiera nera dietro. Li hanno mandati all’avvocatessa, non sono stati pubblicati».
Come è stato liberato?
«Una mattina mi hanno dato uno zaino con pantaloni nuovi, una t-shirt, un Corano, un pacchetto di sigarette e un biglietto per la nave Jolo-Mindanao a nome di una donna. Mi hanno fatto fare una doccia. In dodici mi hanno portato su una strada, al tramonto, uno mi ha fatto salire su un pullmino pubblico, tre mi hanno preso alla fermata e messo su un sidecar fino alla nave con un sacchetto di cibo, pollo arrosto e pane. E di colpo sono evaporati. Ho addentato la coscia, ho alzato la testa e improvvisamente ero circondato da poliziotti: mi sono vergognato come uno che avesse fatto qualcosa di male, pensa te».
È stato pagato un riscatto?
«Non penso che lo Stato italiano abbia versato un solo euro, ma è stato molto vicino alla mia famiglia. Ringrazio di cuore l’ambasciatore Roscigno e la sua famiglia».
Cosa le hanno detto prima di lasciarla libero?
«Siamo curiosi di sapere cosa dirai di noi».