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 2016  aprile 28 Giovedì calendario

La straordinaria riconversione patriottica di Salvini

Al grido di «Roma o morte», in mezzo alla folla è spuntato Mario Borghezio. Eravamo a Roma sulla terrazza del Pincio, la settimana scorsa, per l’inaugurazione della campagna elettorale di Giorgia Meloni insieme con Matteo Salvini. In attesa dei comizi, gli altoparlanti diffondevano frasi storiche su Roma, da Ottaviano Augusto («Ho trovato una città di mattoni, ve la restituisco di marmo») ad Alberto Sordi («È un grande museo, un salotto da attraversare in punta di piedi») e fino a Giuseppe Garibaldi – o Roma o morte – ed è stato lì che l’allucinazione distopica ha preso le sembianze di Borghezio. Cioè il leader padano che neanche tanto tempo fa diceva, e per prendere un precetto fra mille, che «noi celti e longobardi non siamo merdaccia mediterranea». Poi Salvini s’è seduto sul parapetto, con dietro i colli fatali e tutto lo strepitoso armamentario scenografico dell’eternità, e ha fatto una diretta Facebook.
Questi sono i giorni in cui la Lega inaugura la sede romana a piazzale Flaminio e fin qui, a parte il garibaldino Borghezio, saremmo quasi nella normalità del nuovo corso leghista, non più antitaliano ma antieuropeo, e ladrona è diventata Bruxelles. L’inviolabilità di Roma era già sfumata nel febbraio dell’anno scorso, quando le bandiere verdi erano sventolate in piazza del Popolo insieme a quelle della destra. Così nessuno si sorprende se Salvini concede interviste nelle quali avverte che «quando saremo al governo non ci sarà il minimo spazio per politiche che sono la morte dell’Italia». E sebbene la volessero tanto, la morte dell’Italia. «Non saremo schiavi di Roma» dicevano, e adesso dicono: «Raccoglieremo tutti gli italiani che non vogliono essere schiavi».
Vista da vicino, la riconversione patriottica è sbalorditiva: Salvini ha lanciato una proposta di legge per la reintroduzione della leva obbligatoria, che è la sublimazione dello Stato centralista, e si è spinto fino alla rivalutazione di Benito Mussolini nei termini stravisti, per intenderci quelli finiani, del «ha fatto tante cose buone»; sulle pensioni «è meglio della Fornero», ha detto, perché «le pensioni di reversibilità l’ha portate il Duce, non l’hanno portate i marziani». Una sentenza pronunciata qui, una là, viene fuori un panorama fantastico. Il 24 maggio del 2015, per i cent’anni dell’ingresso italiano nella Prima Guerra Mondiale, Salvini era sul Piave, a Nervesa della Battaglia, contro la «nuova occupazione» a ripetere un secolo dopo «non passa lo straniero», e a dichiarare il Piave «fiume sacro alla patria». La patria. Non la Padania: la patria. Salvini si arrabbiò moltissimo perché un prete di Vittorio Veneto s’era rifiutato di leggere in coda a una messa la preghiera degli alpini: «Rendi forti le nostre armi, contro chiunque minacci la nostra patria, la nostra bandiera, la nostra millenaria civiltà». Salvini la fece sua, la recitò in piazza, disse proprio «la nostra patria» e «la nostra bandiera», quella con cui Umberto Bossi si sarebbe pulito le parti meno nobili, secondo i propositi diffusi nel 2000 in un comizio a Venezia.
Prima il fascismo, poi la Prima Guerra Mondiale: la rivalutazione prosegue a ritroso e infatti adesso arriviamo all’indicibile, al Risorgimento e all’unità d’Italia. Furibondo col parroco che non aveva letto la preghiera degli alpini, Salvini declamò un «libera Chiesa in libero Stato», da Camillo Benso di Cavour. Era una citazione consapevole perché il capo leghista era reduce da un tour in Sicilia sulle orme di Giuseppe Garibaldi (tutti ricordano l’opinione leghista dell’Eroe dei due mondi: meno di dieci anni fa, l’analisi storica aveva portato Bossi a dichiararlo un «cretino»). Salvini andò prima a Milazzo poi a Marsala, dove 155 anni prima Garibaldi era sbarcato coi suoi Mille. Il gesto fu così bello da ispirare i salviniani di Napoli che il mese scorso, per protestare contro il degrado, si sono radunati sotto la statua del generale e hanno cantato l’Inno di Mameli.