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 2016  aprile 28 Giovedì calendario

Sofferenza, solitudine e poesia. I consigli di Houellebecq per restare vivi

La raccolta completa delle poesie di Michel Houellebecq (La vita è rara. Tutte le poesie, Bompiani) si apre con una singolare opera didattica, un «metodo» come lo definisce l’autore stesso, intitolato Restare vivi. È un genere non molto praticato ai nostri tempi, ma che può vantare antenati illustri, dall’Epistola ai Pisoni di Orazio, meglio conosciuta come Ars poetica, alle Lettere a un giovane poeta di Rainer Maria Rilke. L’autore di questo tipo di testi immagina che l’esperienza accumulata possa in qualche modo essere utile a un principiante, permettendogli di trovare la sua strada, mostrandogli gli errori più comuni e l’atteggiamento mentale necessario a migliorarsi. Come i lettori dei romanzi e dei saggi di Houellebecq potranno facilmente immaginare, nel suo «metodo» c’è ben poco di incoraggiante, e spesso, leggendo queste pagine nitide e angoscianti, siamo costretti a domandarci se quelle che abbiamo di fronte sono davvero delle istruzioni poetiche rivolte a un ipotetico novizio, oppure il cupo bilancio di una battaglia personale contro il mondo e contro la vita, battaglia che ovviamente è persa ancora prima di iniziare.
Tanto per cominciare, come mettono in guardia le prime righe, la sofferenza è la ragion d’essere e la sostanza della poesia. Ma in questo la poesia non fa che rispecchiare l’universo stesso, così come Houellebecq lo concepisce. Tutto ciò che esiste soffre, è «una sofferenza dispiegata». Non solo, ma se possiamo immaginare un nulla che precede l’esistenza, ebbene anche questo vibra di dolore: fino al momento in cui, in un «abietto parossismo», il nulla perviene all’essere. Ma al poeta non è nemmeno necessario spingere lo sguardo fino ad orizzonti così cosmologici. Gli basterà esercitare la memoria, ogni singola vita non essendo che un sintomo della malattia universale. È necessario «restare vivi», appunto, senza paura della felicità («che non esiste»), e consapevoli del fatto che ogni passo in direzione della verità è anche un ulteriore approfondirsi della distanza tra sé e gli altri, una conferma della propria solitudine.
E con la solitudine siamo arrivati, probabilmente, al motivo di fondo, al nucleo generatore della poesia di Houellebecq. Prima di ogni altra qualità, infatti, la personalità che si esprime nei suoi versi è solitaria. La solitudine è il tarlo capace di corrodere l’amore anche nel momento della sua pienezza. Come se una forza centripeta finisse sempre per allontanare il poeta dal mistero dell’altro, consolazione troppo intermittente e comunque illusoria. Come recita lo splendido inizio di una poesia recente: «Ho per solo compagno un contatore elettrico,/ ogni venti minuti fa dei rumori secchi/ e il suo funzionamento preciso e meccanico/ mi consola un pochino dei miei recenti scacchi». Non ci sono dubbi: se non fossero parole scritte in versi, potremmo scambiarle facilmente per uno dei memorabili attacchi dei romanzi di Houellebecq. La poesia, il racconto e il pensiero sono come le maschere intercambiabili indossate dalla stessa coscienza avviluppata nel suo «cafard», parola francese difficile da tradurre, perché non corrisponde esattamente né alla vecchia «malinconia» né alla più attuale «depressione». Come accade anche nei libri di Cioran, il «cafard» non è solo una condizione psicologica e una specie di irrimediabile paralisi emotiva, ma un modo di conoscere la natura delle cose, una forma di vita che è anche una filosofia. Poco altro, però, questi due insigni rappresentanti del pessimismo contemporaneo hanno in comune. La percezione del reale di Houellebecq lo conduce a una specie di darwinismo di secondo grado, nel quale l’ambiente naturale ha ceduto il passo a un reticolo di scambi sociali nel quale, paradossalmente, proprio chi è più consapevole è più incapace di adattamento. Ricorre continuamente nelle poesie di Houellebecq l’immagine di un’alba livida, di una metropoli che rimette in moto, ogni giorno identici, i suoi meccanismi di competizione sociale ed economica («Oggi avrà luogo. La superficie invisibile/ che delimita nell’aria i nostri esseri di sofferenza/ si forma e si indurisce a una velocità terribile»). All’inizio del nuovo giorno, la coscienza registra con insopportabile acutezza un futuro prossimo che altro non è se non la ripetizione dei giorni precedenti. Il calendario ha divorato il destino; e la perfezione del meccanismo non consente che uno sguardo attonito, pietrificato dall’angoscia.
Houellebecq a volte può dare l’impressione di un’eccessiva abbondanza nelle variazioni di un sentimento sempre identico a se stesso. Come se gli mancassero quei criteri di selezione che di solito si accompagnano alla costruzione di un libro di poesia. Il fatto è che per lui la poesia non si identifica con nessun risultato concreto, è il centro stesso di quella coscienza malata che non può che continuare a percepire la sua malattia. Un’altra eresia, se così vogliamo chiamarla, consiste nel fatto che uno scrittore così padrone dei suoi mezzi si mostri molto indifferente alle scelte formali, come se tutto ormai fosse stato inventato e tutto fosse abbastanza adatto per i suoi scopi. Così, all’aspetto modernista di certi componimenti, dove prevale il verso libero e l’alternanza di versi e prosa, si alternano forme più rigide, nelle quali si dispiega l’alessandrino, un verso che nella tradizione francese equivale al nostro endecasillabo, ma più solenne e meno duttile. In questi casi, è soprattutto la lezione di Baudelaire ad essere sorprendentemente rivitalizzata. Ma i maestri e i modelli contano ben poco per chi cerca nella poesia, più di ogni altra cosa, un estremo espediente per resistere e restare vivo. L’ultimo barlume di salvezza sembra consistere nella rinuncia a piegare il mondo, e le sue ineluttabili evidenze, ai propri desideri. Meglio immaginare «l’essere percettivo» come «un’alga», allora: perfetta metafora di una «non-resistenza» a quel mondo di cui, per qualche ragione che nemmeno il poeta saprebbe spiegare, è necessario parlare. Dopotutto, a differenza di molti pessimisti, Houellebecq non dimentica mai che anche noi «facciamo parte del fenomeno», siamo un minuscolo pezzo di quello stesso ingranaggio che ci stritola.