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 2016  aprile 28 Giovedì calendario

Trent’anni fa l’Italia si collegò a Internet

L’ingegnere, il fisico e l’informatico. Tutti con l’accento toscano. Nell’immaginario collettivo, rinforzato dal post su Facebook del premier Renzi che presentava a fine marzo l’Internet Day di domani, sono i tre pionieri che il 30 aprile 1986 hanno collegato l’Italia alla rete. Stefano Trumpy (Livorno) allora era direttore del Cnuce, il Centro nazionale universitario di calcolo elettronico creato dal Cnr nel 1965, Luciano Lenzini (Pisa) era il responsabile dei calcolatori e delle reti e Antonio Blasco Bonito (Massa Carrara) il sistemista di rete, l’uomo del software. A trent’anni di distanza tutti e tre ricordano quel momento con una certezza comune: «Non avevamo capito l’importanza di quello che stavamo facendo, di quanto Internet avrebbe poi cambiato il mondo».
Non si tratta di poca coscienza: Internet allora era una rete di nascita militare ed era utilizzata dalle università come strumento di ricerca. Il web, «inventato» in Europa dal Cern di Ginevra, era ancora distante tre anni. E così quel giorno a Pisa, nella sala macchine del Cnuce, per caso c’era il solo Blasco Bonito: «Ero emozionato, al mio fianco c’era il router Butterfly che ci aveva mandato il ministero della Difesa americano: era più gande di un frigorifero», racconta al Corriere l’informatico ora 65enne. «Dal nostro terminale inviai un ping, una richiesta di risposta al computer che si trovava negli Stati Uniti». Dopo aver rimbalzato sul satellite, da Fucino in Abruzzo a Roaring Creek in Pennsylvania e ritorno, il segnale tornò indietro. «Furono momenti di suspence, ma l’esperimento era riuscito».
Quello che fu di fatto il taglio del nastro del progetto ha radici lontane. L’idea nacque nel 1979: dalla University of London arrivò la proposta al Cnuce, allora un’eccellenza mondiale per l’informatica, di connettersi ad Arpanet (la rete antesignana di Internet). Fino a quel momento i «nodi» europei erano solo in Norvegia – per motivi militari – e appunto in Gran Bretagna. «All’inizio del 1980 mandai una lettera a Robert Kahn, il responsabile dell’Arpa, per dirgli semplicemente: siamo pronti». Il racconto adesso passa dalle parole di Luciano Lenzini, il ricercatore ora 72enne che di fatto costruì il progetto pezzo per pezzo. Con un lungo slalom nella burocrazia. «Da allora passarono quattro anni impiegati a ottenere l’investimento di 100-150 milioni di lire per comprare l’hardware necessario e per mettere d’accordo Sip, Telespazio e Italcable per costruire il “percorso” verso Arpanet». Quando tutto sembrava pronto, arrivò una lettera del ministero americano: nel frattempo l’hardware era diventato vecchio, ne serviva di nuovo. «A quel punto decisi di mollare, era troppo», ricorda Lenzini. «Lo comunicai a Kahn durante un convegno. Durante il coffee-break vidi che confabulava con Vinton Cerf, l’altro “padre” di Internet, e poi venne da me sorridente: ve lo facciamo regalare dal dipartimento della Difesa Usa». Un miracolo, o quasi: il Butterfly di cui sopra venne fermato in dogana, in Italia. E così la rete tardò altri sei mesi ad arrivare.
Malgrado i ritardi tragicomici, quando i computer di Pisa diedero l’ok quel 30 aprile l’Italia era il quarto Paese in Europa a essere collegato a Internet. «Eravamo all’avanguardia, ora siamo i fanalini di coda», spiega amareggiato Stefano Trumpy, direttore del Cnuce dal 1983 al 1996: fu l’uomo che diresse il progetto e ne garantì i finanziamenti. Secondo il report della International Telecommunication Union, l’Italia è al 49esimo posto per connessioni fisse broadband, con un tasso di crescita del 2,4% contro la media del 3,2. Il Piano del governo per la banda larga, che vedrà i primi bandi di gara proprio nell’occasione dei 30 anni della Rete, vuole rimettere in carreggiata il Paese entro il 2020. Trumpy è Digital Champion di Livorno, sua moglie Laura Abba per Massa Carrara. «Siamo coinvolti in prima persona in una trasformazione che deve assolutamente avvenire. I ritardi accumulati negli anni sono colpa dei governi che se ne sono sempre disinteressati», spiega Trumpy. «Ma anche dell’industria italiana, Telecom per prima, che non ha mai spinto verso l’innovazione». Che passa giocoforza da un Paese connesso, e non a macchia di leopardo.
«Parte delle colpe sono anche dei cittadini, degli utenti», racconta l’ingegnere ora 71enne. «Gli italiani malgrado siano un popolo di inventori, si rivelano alla fine poco aperti alle novità». Servirà un cambio di marcia anche nella cultura del Paese. Simbolica in questo senso è stata la reazione dei giornali all’epoca dell’annuncio che l’Italia era in rete. «Scrissi immediatamente, insieme a Lenzini, un comunicato stampa emozionato», conclude l’uomo del clic, Blasco Bonito. «Il risultato fu nullo: non uscirono neanche due righe, la notizia non fu capita».
Va detto però che quello che Renzi definisce «forse il buco più grande della storia del giornalismo italiano» arrivò quattro giorni dopo il disastro di Chernobyl. L’Italia era online, ma il mondo guardava da un’altra parte.