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 2016  aprile 28 Giovedì calendario

Si accorcia l’aspettativa di vita al sud. Ecco il risultato del federalismo regionale

Se un cittadino campano o siciliano ha una vita mediamente più corta di tre o quattro anni rispetto a un cittadino trentino, il dato non è tecnico: è politico.
E certifica il fallimento del federalismo regionale (soprattutto se applicato alla sanità) e il tradimento dell’articolo 32 della Costituzione che garantirebbe a tutti gli italiani uguale diritto alla salute nonché cure gratuite per gli indigenti.
Hanno forse una chiave di lettura assai inquietante i già pesantissimi numeri diffusi l’altro giorno dal rapporto Osservasalute 2015. Per la prima volta in tempo di pace, descrivono una contrazione, pur minima, nell’aspettativa di vita degli italiani. E, naturalmente, questa foto di «come siamo» ci sconvolge, costringendoci a pensare a un’Italia rovesciata rispetto alla confortevole idea di progresso continuo dentro la quale siamo cresciuti.
Tuttavia un ulteriore elemento velenoso che motiva questo calo si coglie già nelle analisi degli stessi ricercatori dell’«Osservatorio nazionale sulla salute nelle Regioni»: c’entra la devolution, spiegano nel gruppo guidato da Walter Ricciardi. Voluta fortemente dalla Lega di Bossi e messa in atto quindici anni fa dal centrosinistra forse nella speranza di prosciugare consenso ai leghisti, la devoluzione (ovvero la trasformazione della nostra Costituzione in senso federalista) cambiò l’Italia unita in un mosaico di venti staterelli, tra l’altro con venti sistemi sanitari non integrati tra loro. Prima del 2001, dicono gli studiosi, i cittadini della Repubblica potevano aspettarsi tutti più o meno la stessa vita media. Dal 2001, la forbice si va allargando. Chi stava bene è stato meglio; chi stava male, peggio. «Le più in difficoltà sono ancora le Regioni del Meridione e lo scenario è aggravato dalle ripercussioni della crisi economica principalmente sugli stili di vita e, quindi, sulla qualità di vita dei cittadini, soprattutto dei meno abbienti», scrivono Marta Marino e Alessandro Solipaca nella sintesi del rapporto sulle Regioni.
Ieri il Mattino di Napoli evidenziava come, in una Campania che guida l’arretramento, più penalizzate siano le donne, con circa cinque mesi di aspettativa di vita in meno. E la faglia non è solo (o non necessariamente) tra Nord e Sud ma tra «chi ha» e «chi non ha», essendo saltato del tutto il ruolo di perequazione dello Stato unitario. Il sistema sanitario nazionale, che molti ci invidiavano e sulla carta non abbandonava nessuno, è stato cancellato prima dalla regionalizzazione e dal saccheggio (infiniti gli scandali di questi tre lustri) e poi da una stretta economica che ha costretto le Regioni a piani di rientro durissimi. Sono proprio le Regioni in piano di rientro le più problematiche, anche secondo Osserva salute. L’allarme non è nuovo. Nel 2013 la Corte dei conti paventava sempre più «deficit assistenziali» al Sud. Due anni dopo la Società italiana di Pediatria ha rilevato che nel Meridione la mortalità infantile è più alta del 30 per cento rispetto al Nord. In un saggio degno d’attenzione, Paolo De Ioanna e Roberto Fantozzi hanno messo a punto tempo fa il concetto negativo di «indice di disuguaglianza»: lo stato di salute percepito dai cittadini in rapporto al sistema sanitario di appartenenza. Beh, Calabria, Puglia e Sicilia hanno l’indice più alto; Toscana, Emilia, Lombardia e Veneto, guidate dal solito Trentino-Alto Adige, il più basso. Il nodo sono i «Lea», i livelli essenziali di assistenza, depressi, nelle Regioni in cattive condizioni finanziarie (quasi tutte del Sud). Per tappare le falle, si ricorre al prelievo fiscale aggiuntivo a carico dei residenti di queste Regioni in «maglia nera». Ma, ci si chiede nel saggio, se il diritto alla salute è garantito per tutti dalla Costituzione, non è forse ingiusto che i residenti di una Regione che usa in modo inappropriato le risorse della sanità siano «fiscalmente penalizzati per la mala gestio dei propri amministratori»? Non sarebbe opportuna la perequazione tra Regioni? Domande nobili ma oziose, purtroppo: avrebbero avuto senso quando l’Italia era davvero «una e indivisibile». Da anni la risposta è: ognun per sé.