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 2016  aprile 28 Giovedì calendario

Il Venezuela in crisi energetica si inventa la settimana composta da due giorni lavorativi

Un fine settimana lungo cinque giorni e solo due lavorativi. È il mondo al contrario del Venezuela di Maduro che, dopo aver spostato il fuso orario di mezz’ora e aver imposto il black out di Stato – quattro ore senza energia al giorno in tutto il Paese, esclusi Caracas, ospedali ed aeroporti –, ieri ha tirato fuori dal capello l’ennesima «misura d’emergenza» per far fronte alla crisi energetica. Il Paese con le più grandi riserve di petrolio al mondo si spegne per mancanza di elettricità.
Per il regime postchavista è tutta colpa di El Niño, il fenomeno climatico che non fa cadere da tempo neppure una goccia d’acqua in questa parte dell’emisfero americano. Il bacino della centrale idroelettrica di Guri, che produce il 70% dell’elettricità, «sembra un deserto» ha annunciato in tv il vicepresidente Aristóbulo Istúriz, affiancato dal ministro della Difesa. E così milioni di «statali» timbreranno il cartellino soltanto il lunedì e il martedì e le scuole resteranno chiuse il venerdì. «Almeno per due settimane». L’opposizione assicura che in «poche ore» raccoglierà le 195.721 firme (l’1% degli iscritti nelle liste elettorali) per avviare l’iter burocratico verso il «referendum revocatorio», con cui spera di mandare a casa anzitempo il presidente-padrone, Nicolás Maduro, al potere dal 2013. Solo martedì sera, dopo la minaccia di massicce manifestazioni, il Comitato nazionale elettorale ha consegnato alla Mesa de la Unidad Democratica (l’alleanza d’opposizione) i formulari necessari. A giudicare dalle code che si sono formate davanti ai banchetti in strada non ci vorrà molto per chiudere la raccolta.
La protesta, ancora prima che in piazza, corre sui social network. Ieri dilagavano in rete gli hashtag #MaduroEsOscuridad (Maduro è l’oscurità) e #LaCorrupcionNosQuitoLaLuz (la corruzione ci ha tolto la luce). I venezuelani sono stanchi di tirare la cinghia. È bastato l’annuncio delle nuove misure eccezionali per scatenare un’ondata di proteste, barricate e saccheggi in varie zone del Paese, in particolare nella città di Maracaibo. E mentre emergono, quasi quotidianamente, piccoli e grandi casi di corruzione, il cibo irrancidisce nei frigoriferi spenti dal black out di regime e i negozi tirano giù le serrande quando i bancomat smettono di funzionare. Nessuno gira più con il contante: troppa criminalità e con l’inflazione alle stelle – la più alta del mondo – ci vorrebbe una valigia di banconote.
Il 63,4% della popolazione, secondo un sondaggio di Datanálisis, si definisce «contro Maduro». I motivi non mancano: l’incubo del collasso elettrico, la penuria cronica di prodotti alimentari e farmaci, l’ondata di violenza scatenata dalle mafie criminali, una democrazia paralizzata. Fra il governo e le opposizioni che da dicembre detengono la maggioranza in Parlamento è scontro aperto. L’erede di Chávez conta su forze armate e magistratura. In questi mesi la Corte Suprema ha bocciato per «incostituzionalità» le riforme approvate dai deputati, dall’amnistia per i prigionieri politici alla riduzione del mandato presidenziale. Molti temono che la macchina del regime si metterà in moto per fermare il referendum. «È l’unica via per uscire dalla crisi e se il Paese si mobilita potrà essere convocato per novembre o dicembre. Speriamo che i militari non scelgano la repressione», dice il leader del centro cattolico Henrique Capriles. La risposta del regime è quella di sempre. «È in atto un colpo di Stato» ha tuonato ieri il generale Padrino López denunciando una «cospirazione» internazionale che include il Parlamento europeo e «perfino il presidente Barack Obama».