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 2016  aprile 28 Giovedì calendario

A cosa è servita la visita di Weidmann a Roma?

A chi gli ha fatto notare che non aveva risposto a nessuna domanda, tantomeno alle perplessità, ha fatto l’occhiolino: «Sa, ho vecchi trascorsi politici». Per il resto Jens Weidmann è ripartito dalle sue ventiquattr’ore in mezzo all’establishment italiano lasciando in molti lo stesso dubbio: dopotutto, esattamente, perché il presidente della Bundesbank è venuto a Roma?
La Banca d’Italia non lo aveva invitato. Non era in agenda nessun evento che implicasse la sua presenza. Nel rispetto dell’indipendenza del banchiere centrale, non era in calendario nessun incontro al ministero dell’Economia o a Palazzo Chigi: Weidmann a Roma si è limitato a criticare per nome e cognome Pier Carlo Padoan e Matteo Renzi nella loro capitale, senza cercare di vederli.
Il momento clou del suo tour era un discorso alla residenza dell’ambasciatore tedesco per il quale era invitata l’intera élite romana della politica economica. Ma secondo quanto ha spiegato lui stesso in privato in questi giorni, Weidmann ha organizzato la visita perché è preoccupato per il progetto europeo. Chi lo ha visto a quattr’occhi si è sentito dire che serve uno «shift», un «cambio di marcia», in modo superare le diffidenze. In privato, Weidmann ha fatto notare: oggi i tedeschi hanno una visione negativa degli italiani, gli italiani la hanno dei tedeschi e troppi europei pensano che la costruzione comune non funzioni più nei loro interessi.
La proposta che il presidente della Bundesbank ha illustrato, fuori dagli eventi pubblici, è appunto quella di un cambio di passo. L’Europa dovrebbe lanciare un piano per la digitalizzazione, ha detto ai suoi interlocutori: un progetto comune attorno al quale tutti i cittadini dell’Unione possano riconoscersi. Più sorprendente soprattutto per chi gli ha parlato a quattr’occhi, è stato il resto. Quando avrebbe potuto spiegare in pubblico la sua idea per superare le divisioni, Weidmann ha preso una strada diversa. Davanti a circa duecento notabili italiani, ha parlato con la massima intransigenza di tutti i temi che dividono e di tutti i problemi dell’Italia. Benché i governi europei a maggioranza schiacciante avessero appena bloccato esattamente quell’idea, Weidmann ha ignorato del tutto questa realtà politica ed è tornato a dire che le banche devono disfarsi dei titoli di Stato del loro Paese: poco importa che l’Italia rischierebbe di esserne destabilizzata. Benché si tratti di una decisione che spetta ai governi, non alle banche centrali, il presidente della Bundesbank è tornato a dire che gli Stati più indebitati (come l’Italia) dovrebbero fare automaticamente default non appena dovessero in futuro chiedere aiuto. E non ha quasi parlato di politica monetaria né di vigilanza bancaria, benché questi siano i suoi unici settori di competenza. Ha parlato solo di temi politici, nel modo più incendiario e unilaterale. Di altro no. Quando gli è stato chiesto sui rischi per l’area euro rappresentati dai derivati nelle banche tedesche, ha eluso la domanda. Quando gli è stato fatto notare che la Germania è in violazione delle regole per l’eccesso permanente di surplus nei conti con l’estero, il banchiere centrale ne ha dato indirettamente la colpa (anche di questo) all’Italia: l’euro è troppo debole a causa della politica monetaria accomodante «chiesta da questo Paese».
Persino alcuni tedeschi presenti in sala sono stati presi da un timore: la platea romana, nei suoi limiti, rischia di prendere quella di Weidmann come un’«aggressione».
Non dev’essere stata l’impressione dell’interessato. Chi lo ha visto riferisce che ieri mattina il presidente della Bundesbank fosse «sorpreso» per il rilievo dato dai media italiani alle sue parole. Non se lo aspettava, benché avesse preparato queste giornate italiane con mesi di anticipo. Difficile dire se ne abbia accennato nella sua colazione di ieri con il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco: i due hanno parlato soprattutto dell’agenda di lavoro della Bce, nella massima tranquillità. Il giorno prima, Weidmann era stato in Confindustria per una colazione con il presidente uscente Giorgio Squinzi.
I numeri parlano per lui. Questo presidente della Bundesbank si è opposto, ma è stato messo in netta minoranza, su almeno undici delle tredici decisioni più importanti della Bce da quando lui è stato nominato nel 2011. Benché sia espresso dal Paese più forte e credibile, è praticamente sempre rimasto isolato nei dibattiti europei. Se il suo viaggio a Roma doveva servire a far capire perché, è stato un successo. Se doveva servire a preparare una sua candidatura a presidente della Bce nel 2019, allora molto meno.