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 2016  aprile 28 Giovedì calendario

Ewan McGregor racconta la sua emozione nel tornare in Scozia per girare il seguito di Trainspotting

Ewan McGregor ha la trepidazione del ragazzino al primo appuntamento anche se sta per incontrare un vecchio amico. «Tra poco ci vediamo con Danny, Danny Boyle». Dopo vent’anni di gelo la coppia di Trainspotting torna a lavorare insieme per l’atteso e più volte annunciato seguito. «Stavolta si parte davvero. La sceneggiatura è perfetta. Oggi ci vediamo e facciamo qualche prova costume per Renton».
Mark Renton era il tossico che tradiva gli amici nel film culto tratto dal romanzo di Irvine Welsh. C’è un giuda anche in Il traditore tipo, il romanzo di John le Carré traslato al cinema che è poi l’occasione dell’incontro con il prolifico attore scozzese. Ma stavolta il traditore non è lui. Nel thriller prodotto dai figli dello scrittore (in sala il 4 maggio per Videa) McGregor è un dimesso professore di letteratura che viene coinvolto con la moglie (Naomie Harris) in un intrigo tra mafia russa e istituzioni britanniche.
Un Le Carré decisamente moderno.
«Sì. È stato scritto nel 2010. Non riguarda agenti dei servizi segreti o dell’MI6, non evoca vecchi impermeabili, sigari smozzicati, bianco e nero. Consegna una versione più contemporanea e mette al centro una coppia che non appartiene al mondo delle spie. Quindi esce fuori dagli stereotipi».
Per lo sceneggiatore Hossein Amini le Carré racconta la decadenza dei valori che è seguita alla perdita di potere dell’Impero britannico.
«Non leggo di politica e vivo a Los Angeles dal 2008. Ma ho seguito con interesse lo scandalo dei Panama Papers, che qualche punto di contatto con il film ce l’ha. Qui sono i soldi della mafia russa che vengono riciclati nelle banche della City londinese. In entrambi i casi ci sono coinvolte persone al potere e nelle istituzioni. E non pagheranno né andranno in prigione. Mi deprime profondamente».
Ha la fama di essere un uomo di sani principi.
«I miei genitori mi hanno cresciuto insegnandomi i valori in cui credevano e lo stesso ho cercato di fare con le mie figlie. Anche per questo sono felice di essere stato diretto da una regista donna, Susanna White. È ridicolo ce ne siano ancora così poche in circolazione».
Lei ha appena debuttato alla regia con “Pastorale americana”, tratto dal libro di Philip Roth premiato con il Pulitzer.
«Una sfida che mi ha cambiato la vita. In realtà dovevo solo recitare il personaggio dello Svedese, una mia ossessione. Dopo tre anni di viavai dei registi mi sono fatto avanti. Le riprese sono finite. Sono appena tornato da Parigi, ho lavorato con Alexandre Desplat che firma la colonna sonora».
Perché era così importante per lei?
«La sceneggiatura mi ha spezzato il cuore: parla di un padre che sta perdendo la figlia. Lei scompare e lui, perdendo lei, perde se stesso. Ma non rinuncia mai a cercarla. Ho quattro figlie, sono rimasto sconvolto dall’amore paterno dello Svedese. E poi è un film sull’America nella sua forma più ampia. Sembra pomposo dirlo, ma è così. Ci sono due punti di vista. Quello dello Svedese, che ha creduto a ragione nel sogno americano, e quello della figlia, che invece non ci crede e lo contesta. Alla fine la definizione è semplice: un film sull’America e sul rapporto tra un padre e una figlia. Quindi un grande film, ma anche un piccolo film».
Affronta temi rilevanti anche oggi.
«Nel film la figlia viene radicalizzata e diventa una dinamitarda che uccide molte persone, tema purtroppo attuale. Esplora anche il rapporto universale che abbiamo con i nostri figli».
C’è una costola della sua carriera dedicata al musical, da “Velvet goldmine” a “Moulin Rouge”. Ora sarà il maitre-candelabro Lumière in “Bella e la bestia”.
«È stato divertente cantare “Stia con noi” per la Disney. Ma Velvet goldmine è stato qualcosa di diverso da tutto, un modo allora mai visto di fare film. Pieno di flashback e di scarti temporali. Tutto sembrava onirico. A Todd Haynes feci una sola richiesta: “Voglio cantare dal vivo sul set”. Erano gli anni Novanta, avrei voluto diventare una rock star, altro che attore. Ricordo che mi ubriacai molto prima della scena nel campo con il glitter e non dimenticherò mai lo scherzo che ci fece Todd Haynes a me e Christian Bale nella scena di sesso sul tetto. Parte il ciak e io e Christian iniziamo la scena. Ma lo stop non arrivava mai. A un certo punto con la coda dell’occhio ho visto la troupe sul tetto vicino che aveva già impacchetto tutto e se ne stava andando, lasciandoci lì».
Tutt’altra musica con “Moulin Rouge”.
«È il preferito di mia figlia grande. Lo vide la prima volta a nove anni, piangeva come una fontana ma non voleva che spegnessi la tv».
Ora si torna a “Trainspotting”. Con Danny Boyle non vi parlavate da quando aveva scelto Di Caprio per “The Beach”...
«Giriamo a dicembre. È bello essere tornati insieme. Mi sono pentito di tutti gli anni in cui siamo stati lontani. Il tempo ha aggiustato le cose. Perderci è stato un errore, ritrovarci fantastico».
Ma il nuovo film è fedele a “Porno”, il sequel del libro di Irvine Welsh?
«È diverso. È solo vagamente basato sul libro, che è stato scritto nel 2002. Il film è ambientato oggi e tutti siamo più vecchi di vent’anni rispetto all’inizio. Ho lasciato la Scozia quando avevo 17 anni. Riprendere il ruolo che è la quintessenza di quella terra non è facile».
Cosa direbbe al giovane se stesso di “Trainspotting”?
«Non ho niente da dirgli, perché so che non avrebbe ascoltato nulla e nessuno».