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 2016  aprile 27 Mercoledì calendario

Fenomenologia di Games of thrones

Non è il racconto dei racconti, Il Trono di Spade, ma spettacolo puro. Non è scrittura, è show. Opera aperta, infatti, Games of Thrones non ha la circolarità conclusa dell’a f-fabulazione, piuttosto la duttile arte guitta delle marionette, tanto è visione, nell’innesto d’utilità del mercato televisivo.Ciò che si vede, dunque, deve ancora essere scritto. Il Trono, canone più che canovaccio, relega lo stesso romanzo da cui deriva – Cronache del ghiaccio e del fuoco di George Raymond Richard Martin –a un remoto prete-sto. I Sette Regni attendono il compimento della Spada. Campione tra le serie tivù–veri surrogati dell’infinito, materia inesistente del tutto che resta –il Trono è un prodotto dalla sapienza tutta marxiana: “Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria”. E Games of Thrones, dunque – goduto nottetempo dal pubblico italiano sintonizzato su Sky Atlantic Hd, in contemporanea coni canali Usa e con quelli del restante mondo d’Occidente – nella potente messa in scena di Guardiani della Notte, di Draghi e di Metalupi si fa carico del segno tutto d’imago ancor più che di logos.
Fa testo il paratesto. La narrazione del potere, infatti, procede nell’autofiction: chi comanda domina l’immaginario ma è l’immaginario a determinare la sovranità. Al pari di qualunque altro marchio dell’intrattenimento domestico –House of Cards su tutti – l’azione scenica prece-de la parola e la volontà di potenza adottata a morale della favola è, ormai, conclamata volontà di sceneggiatura. Non si avrà altra narrazione al di fuori della Fratellanza Senza Vessilli. Non c’è campagna per le Presidenziali –non c’è più prontuario machiavellico – che non abbia a parametro, per interposta Casa Bianca, i coniugi Underwood. E così ogni Weltan-schauung, ogni visione “dipresa visione” in pay-tv, non può –in virtù dello straordinario successo di pubblico – prescindere dalla più antica delle novità. Ed è la saga di lame, brume del Nord e bionde regine con cui il sexual persona e del potere fabbrica la più seducente promessa di redenzione: il glamour. Il paratesto appronta il palinsesto. Ciò che si narra diventa realtà. E la narrazione – lo storytelling, fosse anche il medioevo delle creature leggendarie dimenticate – fabbrica la didascalia della contemporaneità al punto di proiettare tra le alte mura di fortezze merlettate e i baldacchini vermigli, orge e complicate copule altrimenti impossibili nella giornata ordinaria degli abbonati di Sky. Chi comanda abita i presagi di ogni mitopoiesi, soprattutto televisiva. Sarà forse un dettaglio tutto italiano ma Richard Madden, già protagonista del Trono di Spade, non andrà a interpretare –e ma-gari per interposto Giglio – Cosimo de’ Medici, in Master of Florence, nel prossimo ottobre di Rai1? Gli scavalca montagne – le compagnie di teatro itineranti – aggiornavano l’alfabeto dei villaggi da loro visitati facendo di ogni geloso un Otello e di ogni disperata una Desdemona e così, oggi, la programmazione tivù rinnova l’immaginario del pubblico attingendo dal tutto che ricomincia – l’eterna giostra del l’intrattenimento –dove l’unità di spazio e tempo di Aristotele è disattesa a beneficio del colpo di scena, del climax esasperato, in questo caso, al punto G di Daenereys Targaryn, la regina interpretata da Emilia Clarke, ovvero il punto massimo di spettacolarità più che di fantasy. Una trama di principio, svolgimento e conclusione, nel Trono, non c’è. Il tempo carnascialesco si apre un varco rispetto a ogni sequenza plausibile e la bellezza di Melisandre – eletta a protagonista del primo episodio della sesta edizione – si svela appunto in un testacoda: mostrarsi vecchia e sopravanzare ogni verità storica. È un’epica dell’arcaico chiamata a coincidere con l’intrattenimento commerciale. Un susseguirsi di figure in forma di “epopee” – per dirla con Jorge Louis Borges – “tutte esistite ma che oggi hanno lo svantaggio di non esistere”.
Un divertimento di vene-rate corbellerie già collauda-to nel passato con Francisco De Quevedo, Miguel de Cervantes e Ludovico Ariosto che fu, giusto capovolgimento di memoria storica e non di contrappasso, il George Raymond Richard Martin dell’Opera dei Pupi. L’infinita battaglia che trascina in scena paladini e saraceni è – le cronache di terrore e morte lo confermano – l’epica che più di ogni altra conferma testo, contesto e paratesto. Tutto ciò che accade, ed ecco lo svantaggio, esiste. E arriva dopo essere stato rappresentato e scritto. È sempre guerra. E la brughiera è un riverbero di canti.