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 2016  aprile 27 Mercoledì calendario

La politica degli annunci virtuali per far bella figura. Della Libia l’Italia parla tanto ma non fa niente, aspetta solo che Tripoli se la cavi da sola

Non si è capito bene cosa sia andato a fare il nostro premier ad Hannover visto che due giorni prima Obama aveva fatto una gigantesca marchetta al governo Cameron e poi con la Merkel aveva discusso del trattato per il libero scambio tra Usa e Ue (Ttip: vero scopo del tour americano in Europa), dell’Ucraina, delle sanzioni alla Russia, dei migranti, della Siria, della Turchia e della Libia.
Siccome però siamo tra i primi al mondo nella politica degli annunci e della realtà virtuale, il coinvolgimento all’ultimo minuto di Francia e Italia è servito a ulteriori annunci.
Così allo sforzo titanico di Obama di tenere insieme l’Europa almeno fino alla firma dell’accordo Ttip (che di fatto spaccherà definitivamente il vecchio continente e ne consegnerà i pezzi all’economia americana), si è aggiunta l’appendice della Fiera di Hannover riproponendo stancamente il mantra: “Soluzione politica per l’Ucraina, la Libia al nuovo governo, il petrolio libico a chi se lo piglia, la Siria ai ribelli, i soldi per i migranti alla Turchia e i migranti che nessuno vuole all’Italia”.
Così abbiamo riscoperto che gli americani invieranno altri 250 special forces in Siria; che il governo libico di Serraj avrebbe chiesto aiuti internazionali (tutto da dimostrare), ma non truppe; che comunque noi manderemo 250 uomini ad addestrare i libici (forse in ritardo, visto che combattono da cinque anni); che noi non manderemo forze militari a proteggere le concessioni dell’Eni (che a difenderle ci pensa da solo); che in cambio la Libia permetterà l’accesso stranie ro al proprio territorio per respingere i migranti (proposta che suona come un ricatto di stampo gheddafiano); e che comunque Gran Bretagna, Francia e Usa stanno già studiando misure militari d’intervento in Libia. Smentito dunque anche l’invio di un contingente di circa 900 uomini come riportato ieri da alcuni media.
Gli annunci di questo tipo non si contano più e sono innumerevoli ormai le misure militari virtuali “già adottate” nei vari round d’interventismo alternati all’indifferenza e al sostanziale disimpegno.
La lotta all’Isis e al suo terrorismo è ancora il pretesto per la realizzazione del vecchio piano di disfacimento dell’Iraq, della Siria e della Libia, tanto caro agli Usa e all’Arabia Saudita.
Ma il gioco è cambiato.
L’intervento russo ha scoperto le carte di tutti e ha rotto la legittimazione del supporto e dell’omertà sugli aiuti esterni all’Isis. Per questo il presunto califfato è in crisi di alimentazione e sta perdendo terreno.
Si magnificano le gesta dei combattenti dell’esercito iracheno a Sinjar e Ramadi, dell’esercito siriano a Palmira e dei peshmerga curdi in Siria e Iraq. Si riconosce il ruolo decisivo degli sciti iraniani e delle forze aeree della coalizione occidentale. Ma tutti stanno ad aspettare che il califfato cada da solo, come è sempre stato prevedibile.
In Iraq, l’annuncio dell’invio dei nostri 450 uomini a difesa della diga di Mosul aspetta che l’Isis si ritiri da tutto il Kurdistan, magari rifugiandosi nei santuari turchi. In Siria, la coalizione occidentale sta soltanto aspettando che l’Isis si ritiri da Raqqa per riprendere subito dopo la campagna di eliminazione del governo di Bashar al Assad. Lui lo sa e con l’aiuto russo cerca di combattere due nemici contemporaneamente: l’Isis e i ribelli aiutati dagli Stati Uniti. Anche questa è un’impresa titanica.
In Libia, se il governo chiede aiuto, se francesi e inglesi combattono sul terreno e se noi mandiamo addestratori significa solo che il nuovo governo non controlla niente, non ha ancora ottenuto il consenso, nessun paese occidentale gli fa credito e il presidente Sarraj stesso pensa già a mettere al sicuro buona parte delle risorse finanziarie. Per la Libia? Speriamo, ma non è stato ancora annunciato.