la Repubblica, 27 aprile 2016
Gli operai della Fiat e il duro lavoro del sindacalista
La notizia dell’ottimo andamento dei conti Fiat (pardon Fca) induce, in quel rottame novecentesco che io sono, qualche pensiero di speranza per il lavoro operaio. Dice Marchionne, tra l’altro, che «bisogna essere open minded», e niente sarebbe più open minded che provvedere a qualche tangibile gratificazione, intendo economica, per la gente che ha contribuito lavorando alla buona salute dell’azienda. Ma se ho capito i tempi, temo che così non sarà. La conservazione del posto di lavoro – per chi è riuscito a conservarlo – pare diventata, in sé, una specie di grazia ricevuta. Che il salario e il potere d’acquisto degli operai possano lievitare in modo percepibile, e non solamente per i dovuti scatti di anzianità, non credo sia più argomento all’ordine del giorno, se non per qualche ostinata centrale sindacale. È come se la permanenza del capitale nel mondo della produzione fosse, in sé, una coraggiosa elargizione di fronte alla quale scappellarsi devotamente; avrebbe potuto, il capitale, decollare verso le galassie della finanza, mollando baracca e burattini. Ogni rivendicazione sindacale rischia di spuntarsi contro l’osservazione che «è già tanto che il lavoro ci sia». Ecco un lavoro diventato durissimo: il sindacalista.