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 2016  marzo 04 Venerdì calendario

A Palermo la mafia torna a uccidere. Due uomini freddati in pieno giorno. E nessuno ha visto niente

La stradina stretta, la 500 L bianca parcheggiata regolarmente e accuratamente sul lato destro, il motore spento, la marcia innestata e il freno a mano tirato, due cadaveri per terra: è così che muore Vincenzo Bontà, 45 anni, incensurato, possidente e amministratore di beni (tanti, troppi) appartenuti in passato anche al suocero, un mafioso dal cognome pesante, pesantissimo, quello di Giovanni Bontate, a sua volta assassinato il 28 settembre 1988 con la moglie, Francesca Citarda. Tra gli aranceti di famiglia, in via Falsomiele, sulla collina che sovrasta Palermo, è morto anche Giuseppe Vela, 53 anni: pure lui colpito da killer quanto mai efficaci, precisi e capaci di non sprecare molti della decina di colpi della calibro 9 che hanno utilizzato per segnare il ritorno in grande stile degli omicidi di mafia nel capoluogo siciliano.

I Bontate non sono una famiglia qualsiasi: il capostipite, don Paolino, era il capomafia degli Anni 50, il figlio Stefano era il «Principe di Villagrazia», ultimo dei boss di osservanza palermitana, prima vittima dell’assalto dei corleonesi di Totò Riina alla città, il 23 aprile 1981; l’altro figlio, Giovanni, l’avvocato, fu condannato al maxiprocesso e assassinato con la moglie, dieci mesi dopo la sentenza, mentre era ai domiciliari: in aula, nell’ottobre 1986, aveva letto il proclama di dissociazione dei boss dall’omicidio del piccolo Claudio Domino. Vincenzo Bontà era figlio di Nino Bontà, morto alcuni anni fa, mentre scontava l’ergastolo proprio per avere ucciso il futuro suocero del figlio: e in suo soccorso, durante il processo, era andata a testimoniare, ma inutilmente, Rosa Bontate, terza figlia di don Paolino. I paradossi delle storie di mafia: Daniela Angela Bontate ha finito con l’innamorarsi e con lo sposare il figlio del presunto assassino di padre e madre.
Nulla in apparenza spiega perché questo sconosciuto incensurato sia rimasto vittima di un agguato organizzato probabilmente con una trappola, un appuntamento dato da gente conosciuta dalle vittime in un posto isolato, abitato ma non troppo, ideale per sbrigare la pratica in tutta tranquillità. Nessuna telecamera di sicurezza sarebbe stata puntata sulla strada e attorno alle 10, quando si sono sentiti i colpi, in via Falsomiele, poco sopra il civico 170, non c’erano testimoni. Forse era un potenziale testimone scomodo Giuseppe Vela, ufficialmente giardiniere, ma il cui ruolo è ancora tutto da capire, vista la ferocia con cui è stato ammazzato: due colpi alla figura e due alla testa, gli stessi esplosi contro Bontà, per il quale c’è stato anche il colpo di grazia. Il genero dell’avvocato Bontate ha tentato la fuga, visto che è stato colpito alle spalle, ed è stato finito quando era già a terra, il volto schiacciato sull’asfalto. La dinamica fa pensare ad almeno due killer.
La Squadra mobile, coordinata dal procuratore aggiunto Leonardo Agueci e dai sostituti Sergio Demontis e Claudio Camilleri, scava nella vita di Enzo Bontà, la cui moglie e le cui cognate, Roberta e Marilena, sono proprietarie di beni che erano stati sequestrati per mafia ma che, dopo la morte di Giovanni Bontate (difeso all’epoca dall’avvocato Renato Schifani, futuro presidente del Senato), furono restituiti ai familiari. Il marito di Roberta Bontate, Stefano Marcianò, presiedeva la coop antimafia Solaria, in cui c’era pure don Mario Golesano, successore di don Puglisi, e gestiva un bene confiscato proprio ai Bontate; Roberta aveva invece un’altra coop antimafia. Si dimisero per lo scandalo. Marilena Bontate, che lavorava col marito Marco Picciurro in Sicilia e-Servizi, fu licenziata dall’amministratore della società informatica della Regione, l’ex pm Antonio Ingroia. Picciurro fu poi riassunto su ordine del giudice del lavoro. In serata una coppia di vicini che possiedono un terreno confinante con quello di Bontà è stata a lungo interrogata negli uffici della Squadra Mobile. I due sarebbero anche stati sottoposti alla prova dello stub: l’ipotesi alternativa alla pista mafiosa è la lite per questioni relative a un muro di confine tra le due proprietà.