Corriere della Sera, 4 marzo 2016
Nel piccolo mondo antico e consolatorio di Montalbano & Co.
Proviamo a ragionare su un apparente paradosso: la più modesta puntata di Montalbano finora trasmessa da Rai1 (il rischio che il personaggio interpretato da Luca Zingaretti sfiori la parodia è forte) ha raccolto ben undici milioni di spettatori.
In questi casi – com’era già successo con il Festival di Sanremo e con Don Matteo – si dice che il prodotto è rassicurante (ma la bellezza di Montalbano stava proprio nel fatto che le sue indagini e prima ancora la sua scrittura, erano poco rassicuranti), che la tv generalista funziona quando volge il suo sguardo all’indietro, che certe offerte sono vissute come vere e proprie cerimonie sociali, dove non sfigura il prete zoppo (le fragilità estetiche e linguistiche sono assorbire dalla liturgia della visione e la ripetitività diventa un punto di forza).
Tutto vero, tutto giusto. E non saremo certo noi a cadere nell’errore di pensare che a ogni grande successo di pubblico corrisponda un fatale impoverimento dell’offerta (il caso Checco Zalone o il successo editoriale di Sette brevi lezioni di fisica di Carlo Rovelli sono lì a testimoniare il contrario). I tre casi citati hanno comunque qualcosa in comune: sono capaci di creare un piccolo mondo antico, consolatorio; all’autorialità dello stile preferiscono il «brand name» (al pubblico vengono offerti tre marchi consolidati); si affidano all’alta leggibilità (scelta, per altro, non scontata). Ben vengano dunque questi successi di audience, nella speranza però che non costituiscano un alibi.
Perché il compito del Servizio pubblico non è solo quello di lisciare il pelo allo spettatore; questa incombenza spetta se mai alla tv commerciale. Alla Rai si chiede qualcosa di diverso da un secondo polo di omologazione; si chiede di avere «una cifra» che caratterizzi immediatamente i suoi programmi; si chiede di essere all’altezza delle nuove tecnologie e di un’offerta multipiattaforma.
Non tutto, nella vita, è audience.