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 2016  marzo 04 Venerdì calendario

Perché usiamo l’inglese per parlare in italiano?

Stavolta la colpa non è degli uomini politici, ma dei giudici del tribunale dei minorenni di Roma, dato che sono stati loro i primi ad utilizzare il lemma inglese «stepchild adoption» (adozione del figliastro), usato dagli stessi magistrati quando una coppia di lesbiche voglia adottare un bambino, ossia il figlio naturale di uno dei due partner. Perché  il termine può riferirsi a una richiesta di adozione, sia da parte delle coppie omosessuali, sia da parte di quelle eterosessuali. Era proprio necessario adoperare il termine anglosassone? E poi ci rammarichiamo che la lingua italiana viene ignorata a Bruxelles e soppiantata dalle altre lingue, quando siamo noi italiani i primi a
non considerarla e a trascurarla di proposito, giorno dopo giorno!
Giovanni Papandrea

Caro Papandrea,
Credo che sull’uso sempre più frequente di parole straniere nella lingua italiana occorra fare qualche distinzione. Esistono parole legate alle trasformazioni della società e alle nuove tecnologie. Agli inizi circolano quasi sempre nella lingua del Paese che di quelle trasformazioni è il principale motore. È accaduto per il computer e sta accadendo con lo smartphone. Alcuni Paesi cercano di «dirigere il traffico» e di tradurre queste nuove arrivate nella lingua nazionale. La Francia, per esempio, chiede a una delle sue più antiche istituzioni, l’Accademia, di proporre un equivalente francese. Il risultato dell’operazione è alquanto ineguale. Vi sono parole che attecchiscono (come «logiciel» per software) e altre che, non appena coniate, vanno a dormire negli archivi dell’Accademia sotto una coltre polvere.
A me sembra preferibile adottare un metodo liberale e lasciare che la scelta del nome di una cosa nuova venga fatta, in ultima analisi, dall’uso. Le lingue sono creature vive e strumenti popolari. Sperare di metterle in riga e dare comandi dall’alto è una battaglia contro i mulini a vento. Il russo e il tedesco, per esempio, devono una buona parte della loro potenza espressiva alla grande massa di gallicismi che hanno adottato fra il XVIII e il XIX secolo. E la lingua italiana, in altri tempi, ha dato un contributo determinante al rinnovamento del linguaggio artistico e musicale in quasi tutti i Paesi europei.
Ma vi sono altri casi in cui l’uso di una parola straniera dovrebbe essere l’eccezione piuttosto che la regola. Penso al linguaggio degli enti pubblici, dei corpi dello Stato, dei ministeri e dei loro funzionari. Recentemente, invece, vi sono stati esempi sconcertanti come il «ministero del Welfare» e il «Job’s act». Era davvero necessario adottare espressioni straniere per parlare di benessere, previdenza sociale, occupazione, lavoro? In questi casi la politica si serve di una lingua straniera per rendere le proprie iniziative più nuove e attraenti. Non ci tratta come cittadini. Ci tratta come clienti.