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 2016  marzo 04 Venerdì calendario

In morte di Sergio Ricossa

Alberto Mingardi per la Stampa

In Italia è piuttosto comune confondere l’oscurità con la profondità. 
E’ forse per questo che il nostro Paese non ha riconosciuto Sergio Ricossa per quel che era: un pensatore formidabile. Gli ha fatto difetto lo stile. Nel senso che Ricossa scriveva troppo bene. La sua prosa è così chiara che il lettore finisce un suo articolo, chiude un suo libro, avendo capito tutto, ma proprio tutto. Il che è imperdonabile, in un Paese nel quale le persone colte si divertono a contemplare inestricabili grovigli di parole come se dovessero svelar loro chissà quale mistero. 
Ricossa è venuto a mancare ieri l’altro, dopo una lunga malattia. Professore di economia all’Università di Torino, è stato editorialista della Stampa e poi delGiornale di Montanelli, che seguì anche alla Voce. Per inciso: non condivideva la viscerale antipatia del suo amico Indro per il Berlusconi politico. Ma lo seguì lo stesso, per affetto e per lealtà. Ricossa, schivo fino alla timidezza ma capace di lampi d’ironia che polverizzavano i suoi interlocutori, era così. Il genere di studioso che aiuta a ragionare un ragazzino di diciassette anni quando quello, con sprezzo del ridicolo, bussa alla sua porta per straparlare delle sorti del mondo e, addirittura, chiedergli una prefazione. Lo so bene, perché il ragazzino in questione ero io.
Ricossa era di umilissime origini. Forse proprio per questo non ebbe mai simpatie marxiste. Prima di altri comprese e studiò come in realtà la rivoluzione industriale abbia coinciso con un generale miglioramento delle condizioni di vita (Storia della fatica, 1974, e poi Le rivoluzioni del benessere, curato assieme con Piero Melograni, 1988). 
Era stato Friedrich von Hayek a suggerire che una visione falsata della rivoluzione industriale è responsabile della diffusa avversione per l’economia di mercato. Ricossa era diventato amico di Hayek frequentando la Mont Pelerin Society, l’associazione di studiosi liberali nella quale era entrato grazie a Bruno Leoni. Fu sempre più affascinato dal pensiero del grande economista austriaco, ne fece uso per mettere a fuoco nuove idee e, dopo aver dedicato anni a studiare e criticare Piero Sraffa (Teoria unificata del valore economico, 1981), diede alle stampe nel 1986 il suo libro più importante e «hayekiano». La fine dell’economia è un saggio come non se ne pubblicano più, nel quale Ricossa demolisce il millenarismo economico di Marx e Keynes, attingendo alla tradizione di Adam Smith e Carl Menger e rinnovandola. Se fosse stato scritto in inglese, oggi sarebbe un piccolo classico.
Il liberismo di Ricossa è «imperfettista». Rifiuta l’idea che la società possa essere pianificata dall’alto, guarda con curiosità al modo in cui gli individui si organizzano autonomamente, ammette che il futuro è tutto da scrivere.
Sono idee tutt’oggi patrimonio di pochi ma negli anni di piombo serviva coraggio «fisico» per sostenerle, quando sui muri dell’università apparivano scritte tipo «Al professor Ricossa scaverem la fossa». Il professor Ricossa scuoteva la testa e continuava a difendere la libertà del suo prossimo, idioti e intolleranti inclusi.

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Stefano Ravaschio per il Corriere della Sera
«Il peggior uso della statistica è quando la si dedica a fini retorici o propagandistici, non per sapere, bensì per far credere ai semplicioni». Era una convinzione di Sergio Ricossa – economista liberale che per sua ammissione voleva andare oltre il liberalismo del suo maestro Luigi Einaudi – scomparso ieri a 88 anni, nella sua casa torinese, dopo una lunga malattia.
Da sempre legato a Torino, dove è nato, si è laureato nel 1949 e ha svolto la sua intera carriera accademica, come professore di politica economica e finanziaria, Ricossa ha pubblicato per anni su «Il Giornale» della direzione Montanelli e su «La Stampa» articoli sferzanti sulla gestione pubblica in una tesi rielaborata in un volume dal titolo programmatico: Come si manda in rovina un Paese. Cinquant’anni di maleconomia (Rizzoli, 1995; Rubbettino, 2012). Dallo scritto ai fatti, è stato uno dei protagonisti, con Antonio Martino e Gianni Marongiu, della «marcia contro il Fisco» del 1987. Quello contro l’eccessiva imposizione tributaria è stato un suo cavallo di battaglia espresso anche nel pamphlet Manuale di sopravvivenza degli italiani onesti (Rizzoli, 1997; Rubbettino 2011). La sua idea era che il Fisco è «due volte peccatore: quando fa pagare tributi ingiusti e quando concede sanatorie, amnistie e condoni agli evasori».
Vicepresidente della Mont Pelerin Society, Accademico dei Lincei, presidente onorario dell’Istituto Bruno Leoni, accanto a rigorosi testi scientifici di politica economica, dove ha criticato in particolare il perfettismo keynesiano e la teoria del valore di Pietro Sraffa, non rinunciava a scritti provocatori, su temi di attualità, che ruotavano comunque intorno al principio fondamentale del primato dell’economia sulla politica, dalla quale si è sempre tenuto distante. Secondo Ricossa «la libertà economica è gran parte della libertà tout court», ricordava in un’intervista, sottolineando come «difficilmente chi non si occupa della libertà economica potrà occuparsi delle altre libertà dell’uomo». La sua verve critica lo ha visto denunciare «i pericoli della solidarietà» e colpire anche i suoi stessi colleghi.
Con Maledetti economisti. Le idiozie di una scienza inesistente (Rizzoli, 1996; Rubbettino, 2010) criticava le distorsioni dell’economia ideologica. Quella che deforma la realtà ad altri usi, atteggiamento intollerabile per un autentico liberale.

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Nicola Porro per il Giornale
Se c’è un padre del pensiero liberale in Italia, quello è stato Sergio Ricossa. Prima e più di Einaudi ha rappresentato il faro di coloro che detestano l’onda lunga del pensiero conformista. Ecco, sarebbe quasi più interessante definirlo così: un anticonformista più che un liberale. Non saltate sulla sedia. Ricossa ci ha spiegato cosa fosse il mercato, la forza delle idee sbagliate, il principio dell’eterogenesi dei fini, la forza della libertà che non può essere mai solo economica, ma di quattrini si nutre. Ha scritto decine di libri, tecnici e divulgativi. Il suo Straborghese è un inno a ciò «che il borghese deve sapere sugli intellettuali di sinistra». Ricossa non ha paura di svelare i tic del «sinistrese», non ha paura di attingere ai maestri del liberalismo classico per svelare i pregiudizi nei confronti della cultura borghese. «Ogni altro intellettuale – scrive Ricossa quando ancora Berlusconi era impegnato a costruire Milano2 – è per l’intellettuale di sinistra un essere inferiore, anzi non è un intellettuale affatto: è un servo dei padroni».
Ma il nostro amato Ricossa è soprattutto un «eroe randiano», un anticonformista, un uomo che non si è mai piegato al corso dei tempi, alle mode dei suoi vicini, è stato immobile, mentre tutto si disfaceva, e quando tutto si è ricostruito, nessuno gli ha mai riconosciuto nulla. Non ci saranno fanfare per la sua morte. Eppure per noi, per il Giornale, vale dieci, cento Eco. Il suo silenzio, che qualcuno potrebbe confondere con una tendenza all’indolenza sabauda, è solo figlio di quella paroletta così abusata dalla sinistra à la page: serietà. A noi che tanto abbiamo imparato dai suoi libri, mancherà. E ai lettori del Giornale, quelli che lo comprano dal primo numero, resta una sola consolazione: rileggersi i suoi scritti. Che restano immortali.

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Mario Giordano per Libero
È morto nel silenzio, come ha vissuto gli ultimi anni. Nel Paese dei novantenni che guidano le banche o fanno i pupari della politica, lui che aveva davvero qualcosa da dire taceva da tempo. Ancor prima di essersi ammalato, infatti, aveva perso la voglia di parlare. Forse era solo stanco di aggiungere prediche inutili, forse era deluso da chi non ha mai saputo apprezzarlo abbastanza. Sergio Ricossa, il più grande economista italiano, maestro di pensiero, di scrittura, di ironia e soprattutto di libertà, non ha avuto premi, non ha avuto riconoscimenti, non è mai stato nominato senatore a vita né accademico ad honorem. Anzi, le sue tesi e il suo insegnamento erano banditi da quasi tutti i giornali e quasi tutte le università. Ho fatto una prova sul campo. Ho chiesto in giro a laureati in Economia, più o meno giovani, se avessero mai sentito parlare di Ricossa. Quasi tutti mi hanno detto di no. Non mi stupisce. È stato così anche per me. Ero giovane studente all’università di Torino, mi stavo laureando in Economia politica, e sembrava che non ci fosse altra teoria al di fuori di Keynes. Ogni testo, ogni lezione, ogni seminario trasudava di socialismo e interventismo, con la grande mano pubblica che ci accarezzava la testa e ci diceva: tranquilli, ragazzi, ci penso io. Sembrava impossibile immaginare qualcosa fuori di lì. Adam Smith era solo un vecchio rimbambito, delle api di Mandeville nessuno parlava, Milton Friedman questo sconosciuto. Figurarsi se qualcuno ci parlava di Ricossa. Il professore lo conobbi ai convegni del Cidas di Torino, un circolo di resistenti della libertà, animati da un uomo forte e buono, Natale Molari, che erano riusciti a tenere alta la fiaccola del buon senso in mezzo all’ubriacatura degli anni sedicenti formidabili. Ricossa teneva lì alcune conferenze, non dimenticherò mai la prima cui assistetti. S’intitolava: «I pericoli delle buone intenzioni». Ricossa citò allora Any Rand (altro nome sconosciuto a tutti noi): «Ciò che ci interessa è il fallimento dell’altruismo. Dall’etica dell’altruismo derivano infatti la spaventosa immoralità, l’ingiustizia cronica, il grottesco doppio metro, i conflitti e le contraddizioni insolubili». Per la prima volta sentii anche citare la frase di Adam Smith che da allora è una delle stelle polari della mia vita: «Non aspettarti il pane buono dalla generosità del panettiere, ma dal suo egoismo». Presi quella conferenza, la sbobinammo, ne uscì un librettino che conservo ancora oggi tra le cose care. Cominciai a leggere gli articoli di Ricossa sul Giornale. E da quel momento volli sapere tutto di quell’uomo che parlava di economia in modo così comprensibile, senza perdersi in formule astruse e numeretti magici. E scoprii che dietro quella semplicità si nascondeva uno studioso di grandissima levatura, brillante esegeta del pensiero di Sraffa, un economista dalla struttura solidissima, incontestabile sul piano teorico. «Da noi chi fa più fumo sembra che abbia più idee», ha detto in una delle sue ultime interviste, concessa nel 2006 a Paolo Del Debbio . Invece «l’economia è vita e non può essere ridotta a formula matematica», chiosava il professore che pure le formule matematiche le conosceva benissimo. Aveva cominciato proprio dall’econometria, infatti, prima di rimanerne profondamente deluso. Come, in fondo, era deluso da questo Paese. Ma perché nelle università non si legge Ricossa, perché sui grandi giornali non si è mai letto Ricossa, perché un gigante del pensiero se ne va nel silenzio generale, mentre la gran cassa ancora batte sulle esagerate note di commozione per Umberto Eco? Semplice: il professore difendeva la libertà, quando tutti inneggiavano a Mao Tse-tung, si proclamò «Straborghese» quando tutti volevano abbattere la borghesia, difendeva le imprese private quando tutte pensavano alla statalizzazione dell’economia. E nel 1987 organizzò insieme a pochi altri coraggiosi la marcia anti-fisco, quando essere contro il fisco significava di fatto essere additati al mondo come evasori. Rimasero celebri le battute che si scambiavano lui e Antonio Martino negli anni ’70: «Non prendiamo lo stesso aereo, perché se l’aereo cade il liberismo in Italia è finito». Una volta gli chiesi che cosa pensasse davvero di Keynes, con cui mi avevano riempito la testa. E lui mi rispose con una pagina del suo Maledetti economisti: «Keynes fu una contraddizione vivente, un moralista affascinato dal peccato, un austero che sperò di diventare l’uomo più ricco del mondo. Deprecò il capitalismo sotto forma di gigantesca bisca, ma non si peritò di speculare varie volte con lo spirito del giocatore d’azzardo. Arrivava a desiderare di truffare i risparmiatori». Non sopportava la doppiezza, il professor Ricossa. E invece amava la libertà. Infatti ne parlava sempre. In quell’intervista, per esempio, Del Debbio gli chiedeva se avesse ancora senso parlare di liberismo. E lui rispose: «Chiedersi se il liberismo ha ragione d’essere è come chiedere se ha ragione d’essere la libertà. Difficilmente chi non si occupa di libertà economica potrà occuparsi delle altre libertà dell’uomo». La libertà non gli bastava mai, ne voleva sempre di più: per questo passò dall’essere liberista all’essere libertario, arrivando ai confini dell’anarchia, con David Friedman, il figlio di Milton, e il Walter Block di Difendere l’indifendibile. Fra questi pensieri, estremi e silenziosi, ha passato gli ultimi dieci anni di vita. Ricossa, che aveva 88 anni, sarà seppellito in un piccolo cimitero dell’Appennino emiliano, con una cerimonia privata, così come privata è stata tutta la sua vita. Va detto infatti che non ha mai avuto incarichi pubblici, non è mai stato nei consigli d’amministrazione delle società, non ha mai cercato la poltrona dell’Inps o dell’Inail. Tanto meno ha inseguito la via della politica. Le uniche seggiole che gli piacevano erano quelle che stavano dietro la cattedra. Professore fino in fondo, maestro umile e grandissimo, anche questa è un’eccezione nell’Italia dei bocconiani e post-bocconiani che usano la scienza per spremere prebende, incarichi e gettoni di presenza nelle municipalizzate. Ma non è che non avesse a cuore il bene pubblico. Anzi, ce l’aveva più di ogni altro, anche se non voleva parlarne mai: «Chi parla di bene comune non sa di che cosa parla, e questo vale per i cristiani, per i socialisti, per i comunisti di tutte le razze superstiti. Perciò i liberisti evitano di proporre il bene comune con la conseguenza che esse sono immediatamente accusati di malvagità e di egoismo». Ed è stata quest’accusa, credo, ad avergli spezzato il cuore e la voce ancor più della malattia. Addio, professore: mi dispiace non essere riuscito a convincerla che avremmo avuto tanto bisogno ancora di sentirla in questi anni. E mi raccomando: adesso dia qualche lezione di libertà anche agli angeli. Sa com’è, anche loro si illudono spesso con le buone intenzioni e con la solidarietà.

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Corrado Ocone per Il Messaggero
A metà fra Hayek e Prezzolini, così potremmo definire Sergio Ricossa, morto ieri a Torino ove era nato il 6 giugno 1927 ed era sempre vissuto. Di Hayek, Ricossa aveva il rigore dell’economista e la scelta decisa per il liberismo e il mercato; di Prezzolini, invece, la tempra del moralista e il disincanto esistenziale sul carattere degli italiani. Due tratti che lo rendevano atipico e isolato nel panorama culturale nazionale. Ordinario di Politica economica e finanziaria sin dal 1963, Ricossa era membro italiano della Mont Pelerin Society, la società fondata da Hayek per diffondere i principi del libero mercato e della proprietà privata. Allevato alla scuola di Einaudi, a un certo punto, come ebbe a dire lui stesso, egli sentì che bisognava essere ancora più radicali del suo maestro nella critica all’invadenza dello Stato.
INDIVIDUALISMO
Ne risultò un individualismo quasi anarchico ma di stampo morale,  tanto che per lui non era poi difficile spiegarsi perché, proprio in un Paese statalista e assistenzialista, si assisteva al "predominio dei furbi" e dei disonesti. Anzi, per dirla tutta, dei “disonesti che si dichiarano onesti". Un’opera di smascheramento e decostruzione sia dei miti dell’economia  sia della morale comune fu perciò il senso ultimo del suo lavoro, che si esplicò fra l’altro con somma perizia. Ovvero, con una capacità unica nel sapere unire il rigore scientifico ad uno stile sferzante e tagliente contro gli errori e il malcostume. Uno "straborghese" come ebbe anche a definirsi, che alla fine risultava paradossalmente un eccentrico e persino un estremista in un Paese che ha sempre avuto in odio le virtù della sobrietà e del decoro. La contraddizione da lui impersonata è ancora oggi la contraddizione della nostra società. Le sue opere principali, oltre al classico “Straborghese” che gli pubblicò Montanelli (collaborò a “Il Giornale” e prima a “La stampa”), sono: “Teoria unificata del valore economico” (1981); “La fine dell’economia. Saggio sulla perfezione” (1986) a “Maledetti economisti. Le idiozie di una scienza inesistente” (1996): “Dizionario di Economia UTET” (1998).

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Lorenzo Infantino per Il Sole 24 Ore
Mercoledì sera è venuto a mancare Sergio Ricossa: il maestro, l’economista, l’amico. Dopo la morte di Bruno Leoni, di cui era stato amico, Ricossa è stato il maggiore punto di riferimento dei pochi liberali italiani. Erano anni in cui le idee di libertà non andavano di moda. Il liberalismo era considerato dai più come una triste e marginale sopravvivenza del passato. I suoi sostenitori erano ritenuti dei nostalgici, le cui deboli forze non avrebbero potuto resistere all’inarrestabile dialettica della Storia. I destini progressivi dell’umanità erano affidati a utopie salvifiche, che promettevano l’eliminazione di tutti i “problemi maledetti”.
In una tale situazione, Sergio Ricossa, nato a Torino nel 1927, ha dovuto vivere contro il proprio tempo. Il clima culturale e politico gli è stato ostile. Le incomprensioni del mondo accademico non sono mancate. Gli è stata perfino preclusa la collaborazione a importanti testate giornalistiche. E quando, sul finire degli anni Sessanta, ha proposto al lettore italiano due testi rilevanti (L’abuso della ragione e La società libera) di Friedrich A. von Hayek, il maggiore pensatore liberale del Ventesimo secolo, quei volumi sono andati direttamente al macero. Ma tutto ciò non ha indebolito le sue energie. Per i pochi che desideravano fare uso della ragione critica e sottrarsi al conformismo e alla bigotteria culturale, Ricossa (utilizzo delle parole che egli stesso ha usato nei confronti di Ludwig von Mises) è stato il «garante della speranza che di fatale vi è nulla e che la libertà ha un futuro».
Ricossa ha proposto un liberalismo di respiro internazionale. Bruno Leoni lo aveva portato alla Mont Pèlerin Society, l’associazione di studiosi liberali fondata nell’immediato secondo dopoguerra da Hayek (e di cui anche Luigi Einaudi ha fatto parte). Qui Ricossa ha abbandonato i panni del tecnico dell’economia. Ed è divenuto un intellettuale capace di investigare le ragioni gnoseologiche della libertà, di spiegare che quella umana è una condizione di ignoranza e di fallibilità, che la competizione è un irrinunciabile processo di esplorazione dell’ignoto e di correzione degli errori e che solo tramite essa è possibile minimizzare il potere dell’uomo sull’uomo. La Casa Editrice Rubbettino ha voluto negli anni recenti ripubblicare tutti i suoi scritti divulgativi. Ne sono stato il curatore, temendo in ogni momento di non essere in grado di onorare la sua opera.
Ricossa ha unito in sé acume, cultura e ironia. E, come tutti coloro che fanno della conoscenza uno strumento di orientamento e non di dominio, è stato sempre pronto ad accogliere chiunque gli si rivolgesse in cerca di un suggerimento o di un aiuto. Ha elargito il suo luccicante liberalismo con generosità, senza risparmio di energie. Lo ha fatto con la parola, trattando anche i più giovani con immediatezza e familiarità. E lo ha fatto con un’impareggiabile penna che ad altri ha rammentato Montaigne, Voltaire, Renard. Più appropriato mi sembra il confronto con il Tocqueville dei Souvenirs, con colui che, attraversando le strade di Parigi nelle giornate del 1848, ha saputo finemente mettere in evidenza gli aspetti paradossali di quegli avvenimenti.
Ricossa avrebbe meritato dei riconoscimenti pubblici. Ma questi non gli sono mai venuti. È probabile che, se gli fossero stati tributati, se ne sarebbe sottratto. Gli unici riconoscimenti ai quali ambiva erano quelli della stima personale. Abbiamo trascorso una bellissima serata del settembre del 2002, alla vigilia di un convegno che, fuori dalle convenzioni accademiche, abbiamo voluto dedicare alla sua opera. Fra le altre personalità internazionali, c’era quella sera Lord Harris of High Cross, un altro “garante” della libertà. La soddisfazione di Ricossa era palese. Ed era esattamente il prodotto della sincera stima di cui si sentiva circondato e del fervore che alimentava i nostri rapporti. Caro Sergio, coloro che ci sanno dare qualcosa rimangono sempre con noi!