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 2016  marzo 04 Venerdì calendario

Alle primarie napoletane Bassolino sfiderà i propri figliocci

Diciamoci la verità: lo fa per Napoli o per se stesso? Il fu Totonno, Antonio Bassolino, atteggia a stupore il faccione accaldato dal jogging della mattina: «Ma io sono Napoli!», replica, quasi sdegnato dalla domanda un po’ oziosa. Se sia megalomania o visione, capriccio senile o coraggio lo diranno domenica gli elettori del Partito democratico ai 78 seggi delle primarie partenopee e, gli andasse bene, dovranno dirlo con più chiarezza tutti gli elettori napoletani al voto di giugno per il nuovo sindaco. Ma intanto gronda di suggestioni la sua ricandidatura, questo ritorno del reprobo riabilitato e con più sassolini nelle scarpe di Edmond Dantès: prima sindaco osannato del Rinascimento napoletano, poi governatore odiato quanto le pile di mondezza, affondato nella palude dei rifiuti campani e poi assolto al processo – polvere e altare – e nel frattempo pensionato coatto e nonno in cerca d’un equilibrio quasi zen tra rancori e dolori, prima fumatore da sessanta sigarette al giorno e poi salutista convinto, e tuttavia suggestionato dall’idea della morte (in montagna) nel periodo blu dell’esilio.
Il 21 novembre, dribblando tutti («chi gli vuole bene lo ha sconsigliato fino all’ultimo», mormora il politologo Mauro Calise, ispiratore del primo bassolinismo), infilzando il Pd che a denti stretti aveva appena concesso le primarie e spiazzando persino la moglie Anna Maria Carloni, pubblica su Facebook due parole: «Mi candido». E da qui comincia il lungo «rewind» di Bassolino, che riavvolgendosi sulla propria vita tende ad alleggerire il peso dei suoi 69 anni («in fondo Sanders è più vecchio di me»), sempre meno essendo il nonno zen e un po’ triste ch’era diventato e sempre più lasciandosi risucchiare da quel nevrotico funambolo della politica che fu Totonno, il suo vero ego che tutti pensavamo sepolto. Slogan autoironico: «Di nuovo ci sono io».
«Ho girato più di cento case, parlato con migliaia di cittadini», dice infaticabile nel viaggio porta a porta verso il recupero dei napoletani incattiviti e cinici, da Scampia a Ponticelli, dalla Sanità a Bagnoli. «Case... preparate», sbuffa Valeria Valente, nel senso di percorsi protetti dalla contestazione, ad uso e consumo di noi giornalisti creduloni. Mamma trentanovenne, avvocato e deputata Pd, Valeria è l’altra candidata forte (in realtà favorita alle primarie di domenica) ma soprattutto è l’altro capitolo d’un racconto che solo una città capace ancora di produrre miti e leggende può inventare. Dietro di sé ha un grande pezzo di partito, Orlando e Orfini e i Giovani Turchi, ma politicamente, è nata e cresciuta proprio nel mondo di Totonno. «Tutti sono figli miei qua a Napoli e il partito per andarmi contro ha scelto una mia figlia», ridacchia lui. Non potevano non dirsi bassoliniani, parafrasando Croce. Valeria conferma: «Più di altri sono stata in quel percorso, voglio bene ad Antonio», dice arrampicandosi per i vicoli del Pallonetto di Santa Lucia, dove va sino al basso della sorella del mitico cantante Nunzio Gallo a chiedere voti. «Però basta con questa storia dei figli, con questo maschilismo. Non potete accettare che poi una donna sviluppi un pensiero proprio? Io sono più riformista di lui e poi sono il nuovo!». Valeria manda lampi per la storiaccia del voto di scambio a Casavatore che ha colpito anche Salvatore Silvestri, capogruppo Pd del paese e soprattutto compagno della sua assistente Mariangela Portinaio. «Mariangela è perbenissimo, basta strumentalizzare», s’infuria. Il rischio dell’assenteismo domenica è forte.
Ma per il Pd napoletano sarà forse più forte lo strascico di questa storia in bilico tra Crono ed Edipo. Perché Valeria non è sola, tra i figli che si ribellano. La appoggia Andrea Cozzolino, fino a qualche tempo fa arcifiglio, nel 2011 saltato sulla grana dei voti «cinesi» alle primarie che distrussero il Pd e consegnarono la città a de Magistris: «Erano 44 quei cinesi, ma per voi condizionarono il voto a Napoli. Se a Milano o Roma sono mille è tutto normale. Smettetela di buttare veleno sulle primarie», sbotta. Anche lui ce l’ha con noi giornalisti. Anche lui giura di «voler bene» a Bassolino, in questo mondo rovesciato che poi può essere riassunto in una stanza della «Fondazione Sudd», quartiere generale bassoliniano al corso Umberto. Quella stanza passò da Cozzolino alla Valente e ora è occupata dall’eurodeputato Massimo Paolucci, che fu testimone contro Bassolino agonizzante al processo sui rifiuti e ora è del Bassolino redivivo il più strategico collaboratore. Valeria Valente («sono socia fondatrice di Sudd») ne ha le chiavi anche in questi tempi al cianuro e le fantasie di corridoio narrano che qualche manina astuta lasciasse sul tavolo dati taroccati sui sostenitori nei quartieri per trarla in inganno. Vero? Falso? Chissà.
Solo pensarci è segno dell’estenuante carosello di amori e rancori in una città dove Bassolino ha votato Renzi al congresso ma dove i renziani appoggiano (senza entusiasmo) la Valente, che al congresso ha votato Cuperlo, paventando il rischio di dover spiegare ai democrat del Nord l’eterno ritorno di Totonno: il quale ammicca sornione, «è normale se perdo, ma se vinco...», e ormai s’è riappropriato delle sembianze di nonno Bassolino come un fantasma che ritrovi il lenzuolo d’appartenenza. Chi altri, se non il fu Totonno, è infatti il tribuno che adesso arringa i napoletani abusati da oblio e camorra a Ponticelli?
Nella casa di Alessandro Arcopinto, «ragioniere da un anno e mezzo disoccupato», alla periferia orientale dell’inferno napoletano, gli chiedono promesse a modo loro, «di poter essere spazzati una strada, tagliato un albero, camminare sui marciapiedi senza venire investiti dai motorini». Dignità, gli chiedono. Perché i bambini chiattilli, dei «quartieri bene», rifiutano di venire qua a giocare a pallavolo, «questo posto fa paura». Lui, che dice di essersi fatto «gazebo vivente» per raccogliere le paure delle donne di San Giovanni dopo l’ultimo delitto, giura che non ci saranno mai più bambini di serie A o B. Illusionismo, sì. Ma anche convincere i napoletani a fermarsi col rosso lo fu, diavolo d’un Totonno.