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 2016  marzo 04 Venerdì calendario

Bob Dylan vende il suo archivio. Seimila documenti per scoprire un mistero

Una certa dose di morbosità è inevitabile e, diciamolo pure, irresistibilmente appetitosa. Per una semplice ragione: Bob Dylan, il più noto e celebrato cantautore di tutti i tempi, è riuscito a mantenere intorno a sé un’invidiabile aura di riserbo. Sappiamo ancora molto poco dei fatti che riguardano gli anni salienti della sua biografia, della genesi e del significato di molte sue canzoni. Scoprire che circa seimila (!) pezzi del suo archivio “personale” sono finiti all’Università di Tulsa, e saranno presto accessibili, vedremo in che forma, a studiosi e appassionati è, per l’universo dylaniano, una bomba ad altissimo potenziale. Di più: è forse l’occasione definitiva per comprendere, per capire a fondo il mistero Dylan. Dalle prime indiscrezioni trapelano notizie fiabesche per chiunque abbia sognato e vagheggiato gli orizzonti poetici che si aprivano dietro i versi di Like a rolling stone (per inciso il manoscritto di questo pezzo è andato all’asta per due milioni di dollari), Just like a woman, Mr. tambourine man o A simple twist of fate. Secondo il New York Times, a sostenere il grosso della cifra spesa per acquisire il materiale, tra i quindici e i venti milioni di dollari, è stata la fondazione del miliardario democratico George Kaiser, ben lieto di portare questo tesoro in Oklahoma, anzi a Tulsa dove già esiste una vasta collezione del mentore di Dylan, il folksinger Woody Guthrie. A quanto pare del “tesoro” fanno parte i dettagliati taccuini (di cui del resto si favoleggiava) del periodo di Blood on the tracks, foto, filmati privati, bozze di scrittura dei capolavori anni Sessanta, appunti, fogli volanti, contratti di lavoro, interi pezzi scartati del suo romanzo Tarantula, e tanto altro ancora, dunque un mare magnum, un’immensità di materiali in cui immergersi per godere fino in fondo del genio di un artista che ha segnato un’epoca come pochi altri hanno saputo fare.
Per capire la portata di questa apertura, la prima così corposa concessa da Dylan, bisogna fare qualche passo indietro. In pieni anni Sessanta, esattamente nel luglio del 1966, Dylan è riuscito a eclissarsi per 18 mesi. La scusa fu un presunto incidente di moto, ma la verità su questo episodio non è mai stata chiarita. Fu verosimilmente un modo come un altro per sfuggire a una pressione che era diventata eccessiva, quando un intero movimento planetario di cambiamento aveva deciso di eleggerlo a portatore di verità, quando tutto il mondo guardava morbosamente nella sua vita, quando si arrivò al paradosso in cui arrembanti biografi si spinsero fino a frugare nella sua spazzatura pur di trovare qualcosa da dire, qualche segreto, qualche scheletro nascosto. Quando dopo diciotto mesi Dylan si fece rivedere in pubblico, fu un ritorno parziale, rimase in penombra. Per tornare ufficialmente in tour passarono diversi anni, ma comunque mantenendo un profilo riservato, rifiutando puntualmente di concedere troppi dettagli sul suo privato e anche sulla sua arte. E così ha continuato. Quando nell’ottobre del 2004 fu pubblicata la sua autobiografia, Chronicles – Volume 1 (da notare l’ironia di una numerazione che al momento non ha ancora avuto un seguito) in molti hanno pensato che finalmente fosse arrivato il momento. Dylan si era deciso a raccontarsi. Ma il libro fu allo stesso tempo una scoperta e una delusione. Il testo, bellissimo, rivelava da un lato molti straordinari aspetti dei suoi processi intellettuali, ma si dilungava per pagine e pagine su episodi minori, e trascurava sistematicamente tutte quelle parti che erano oggetto da anni delle più sfrenate e morbose curiosità. Un bel libro, dunque, ma il mistero dell’incidente di moto del 1966, così come il vero significato di Mr. Tambourine man, rimanevano indecifrabili. È vero d’altra parte che da quel momento in poi Dylan ha dimostrato quantomeno una volontà archivistica sulla sua biografia artistica, pubblicando intere serie di magnifiche registrazioni d’epoca, e col tempo qualche segno sulla possibilità di concedere maggiori informazioni. Fino alla sorprendente notizia del suo archivio privato passato all’università di Tulsa. È anche uscito un breve comunicato in cui Dylan si dichiara felice che le sue cose siano andate a finire accanto a quelle del suo idolo Guthrie. I maligni potrebbero dire che è una concessione molto ben pagata ma, è sempre il New York Times a raccontarlo, il gioco sarebbe ancora più complicato. 
In realtà il valore della collezione sarebbe di gran lunga superiore, intorno ai sessanta milioni di dollari. Dylan ne avrebbe donato l’equivalente in valore di quaranta milioni così da ottenere forti agevolazioni fiscali sui quindiciventi che ha incassato. Minuzie, ci verrebbe da dire, visto che c’è in gioco la magnifica, insuperabile arte di un poeta considerato allo stesso tempo una gigante della letteratura americana, un colosso epocale nella storia della musica, il più citato, a quanto pare, da giudici americani della Corte Suprema, un artista talmente enorme da assurgere a sostantivo, aggettivo (dylaniato), verbo (dylaneggiare), da essere leggenda vivente, unico e imperturbabile demistificatore di se stesso mentre tutto il mondo continua a tentare di museificarlo, di costruire con mattoni indelebili il suo imperituro monumento. Ora, per la prima volta, a 74 anni, alcuni mattoni del grande monumento li ha forniti lui stesso.