Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  marzo 04 Venerdì calendario

In morte di Marcello De Cecco

Stefano Lepri per la Stampa

Di rado gli economisti possiedono il senso dell’umorismo. Ne aveva parecchio Marcello De Cecco, mancato l’altra notte a Roma a 77 anni. Era sempre un piacere ascoltare i suoi discorsi o leggerlo suRepubblica, anche quando trattava argomenti complicati di banche o di storia delle monete. E se doveva criticare qualche potere costituito, non si risparmiava.
Uomo del Mezzogiorno, né la vasta cultura internazionale né la pratica dell’inglese – lingua in cui ha anche insegnato – gli avevano tolto il caratteristico accento d’Abruzzo. Prima aveva studiato legge a Parma, poi economia a Cambridge. Ha insegnato in parecchie università, tra cui la Normale di Pisa, da ultimo la Luiss di Roma. 
Si divertiva ad andare controcorrente. Quando nel 2002 si passò dalla lira all’euro la maggior parte degli italiani ritenne di percepire un forte aumento dei prezzi, mentre economisti e statistici lo negavano. De Cecco senza esitare dette ragione alla gente e torto ai suoi colleghi; ne attribuì la colpa al governo Berlusconi.
Collaborava con le istituzioni, come la Banca d’Italia e il Fondo monetario internazionale, non nascondeva le sue idee di sinistra. Scrivendo per i giornali interveniva spesso su questioni politiche, però in politica non volle mai entrare; tra l’altro, rifiutò l’offerta di candidarsi a presidente della Regione Abruzzo per il centro-sinistra nel 2005.
Contrario alle dottrine dell’austerità, aveva dedicato a combatterle il suo ultimo libroMa che cos’è questa crisi (Donzelli 2013). Ritenne peraltro inevitabile la stretta del governo Monti benché meglio di altri ne prevedesse le conseguenze negative sull’Italia; per tempo avvertì su quanto le magagne delle banche tedesche complicavano la crisi dell’euro, questione che resta d’attualità.


*****

Marco Panara per la Repubblica
Era un economista, ma il suo strumento principale non era la matematica, era la storia. Marcello De Cecco – morto a Roma nella notte di mercoledì, all’età di 77 anni – non credeva nella capacità delle formule di sciogliere la complessità. Considerava la storia, le istituzioni, il flusso degli interessi, fondamentali nel determinare i destini, e il suo metodo era di partire da quelli per capire. Un metodo che gli consentiva non di rado di anticipare gli accadimenti.
Un esempio recente: in un articolo pubblicato da questo giornale il 12 ottobre scorso affermava che la Cina avrebbe utilizzato un possente riarmo per aumentare la domanda interna e rilanciare la sua pericolante economia. Tre settimane dopo arrivò proprio questo annuncio di Pechino. De Cecco non aveva informatori nella Città Proibita, sapeva però leggere gli avvenimenti.
Aveva studiato giurisprudenza a Parma ed economia a Cambridge. Furono quegli anni a formarlo. A Cambridge allora dominavano gli eredi di Keynes, ma ospiti frequenti erano i monetaristi della scuola di Chicago. Grandi discussioni, serate interminabili. Keynesiani contro monetaristi, teorici puri ed economisti matematici da una parte e i pragmatici, quelli attenti ai meccanismi della realtà dall’altra. De Cecco prese questa seconda strada diventando uno dei massimi esperti mondiali del ruolo della moneta, di storia della moneta, del potere che c’è dietro. Il suo Money And Empire: The International Gold Standard 1890- 1914, pubblicato nel 1979, è un classico internazionale.
Ma la sua curiosità ha portato le sue ricerche in molte direzioni. Dalle banche e i sistemi finanziari all’evoluzione dell’asfittico capitalismo italiano,all’evoluzione della borghesia, all’industria pubblica. Conosceva in profondità l’industria dell’acciaio come il sistema bancario tedesco, aveva analizzato il ruolo dei commercialisti nell’impresa familiare italiana e raccontato il passaggio all’euro partendo dal prezzo delle mele esposte in un banchetto di fruttivendolo.
Era nato a Lanciano, in provincia di Chieti, nel 1939. Era onnivoro, leggeva di tutto, aveva una memoria prodigiosa e la capacità di collegare mondi distanti e offrire letture degli eventi tanto affascinanti quanto inattese. Da Lanciano, sempre nel suo cuore, a Cambridge e poi a insegnare nelle università del mondo, da Harvard a Berkeley a Princeton, da Parigi a Berlino. A Hong Kong a studiare le economie dell’Estremo Oriente, alle università di Siena, alla Sapienza, alla Normale di Pisa e in molte altre.
Mai provinciale: non c’è analisi di un fenomeno – diceva – che non richieda una lettura sistemica degli interessi internazionali. E infatti era un maestro nel vedere i condizionamenti alla libertà di azione degli stati. Attraverso questa chiave spiegava, tra le altre cose, la fine della grande industria italiana.
Non era propenso ad assumere incarichi pubblici, che – tranne una parentesi nel consiglio di amministrazione del Monte dei Paschi, quando era ancora solidissimo – non ha avuto mai. Era libero e sanamente scettico. Amava l’Europa ma vedeva senza illusioni tutta la complessità del progetto e non metteva mai a tacere il suo spirito critico.Aveva scritto il suo primo articolo per Repubblica nel 1976, poche settimane dopo la fondazione del giornale, e ne ha accompagnato il percorso per tutti questi quarant’anni.

***

Mauro Campus per Il Sole 24 Ore
Non sono molti gli economisti italiani vissuti nella seconda parte del ventesimo secolo che possano vantare un’influenza duratura sul discorso pubblico nazionale. Fra questi, merita un posto Marcello de Cecco, la cui originalità può, in effetti, essere misurata proprio nella difficile catalogazione del suo lavoro: sotto quale lettera si dovrebbe rubricare lo sfaccettato approccio che egli ha saputo costruire fin dalle sue prime prove di studioso? Del resto, prima che un economista brillante, de Cecco – scomparso ieri a 78 anni – era un intellettuale vivacissimo: un maestro di concretezza, di coerenza, di cultura civile. Dei suoi interventi è necessario ricordare la qualità, il rigore, il metodo col quale esprimeva l’amore per il suo Paese che – sempre più spesso – egli viveva col disagio di un amante in attesa che il suo sentimento assumesse una forma chiara. L’eterna adolescenza italiana fu, invece, uno dei tormenti di de Cecco. L’ambiguità di un sistema riluttante ad aprirsi al mondo e diffidente nell’aderire con spirito costruttivo alle forme dell’integrazione internazionale, furono lo sfondo della sua riflessione penetrante e mai introflessa su una spesso sconcertante attualità politica.
Scorrendo la sua bibliografia, la certezza è di trovarsi di fronte a un poligrafo che affrontò uno spettro insolitamente ampio d’interessi che dalla storia dello sviluppo economico spaziano all’integrazione monetaria europea, dalla storia del pensiero economico alla collocazione internazionale dell’Italia liberale e repubblicana. Come pochi egli seppe coniugare interessi solo all’apparenza diversi, raggiungendo un livello analitico inusuale per l’epoca in cui i suoi interventi furono scritti e affrontando pionieristicamente problemi interpretativi di prima grandezza. La riflessione di de Cecco poggiava su una conoscenza profonda delle relazioni economiche e finanziarie internazionali che egli riconosceva come il sistema nervoso del sistema politico internazionale. La confidenza con questi temi fu all’origine di un libro che a distanza di quarantadue anni seguita a essere un punto di riferimento: Money and Empire (Blacwell 1974). Dall’uscita di quel volume i lavori di de Cecco tenderanno a convergere verso l’analisi dell’influenza del sistema internazionale nella determinazione del quadro nazionale (economico e politico) e, come pochissimi altri in Italia, spiegò efficacemente le ragioni dell’integrazione economica regionale. Illuminanti i suoi saggi sull’unificazione monetaria europea le cui ragioni egli spiegava come il suggello a un ciclo d’instabilità piuttosto che l’avvio di un nuovo modello di contenimento degli interessi nazionali.
De Cecco ebbe un rapporto d’intenso attaccamento all’attività di opinionista che svolse per tutta la vita: fu collaboratore di Repubblica, e affrontò la sua attività pubblicistica con fermezza, obiettività e vigile partecipazione. I lettori impararono presto a conoscere la schiettezza di quello studioso irrequieto e schivo, lontano da scuole e ortodossie. Certamente gli anni passati al Royal Institute of International Affairs contribuirono a irrobustire nello spirito di de Cecco quel suo naturale understatement che non si trasformò mai in distaccato disinteresse. E proprio sulla rielaborazione dei suoi scritti giornalistici sono costruiti una serie di volumi. L’ultimo (Ma che cos’è questa crisi, Donzelli 2013) ricompone i passaggi chiave della Grande recessione allineando le storture, le rigidità e la fallacia dei rimedi proposti dai mandarini della cosiddetta economia “ortodossa”.
L’ironia era uno dei tratti distintivi di Marcello de Cecco: era forse il mezzo naturale per mitigare la passione che traspariva da ogni suo scritto e da ogni conversazione pubblica e privata, un’ironia che si coniugava perfettamente con un temperamento intellettuale unico, e con un rigore logico esemplare su cui si fondavano la sua autorevolezza di studioso e la sua partecipazione alla vita civile esercitata senza mai perdere di vista la necessità di rendere accessibile e comprensibile il proprio lavoro.