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 2016  marzo 04 Venerdì calendario

La City paga cara la paura della Brexit

In un piccolo ufficio nel cuore di Farringdon, la storica Little Italy di Londra, Maurizio Bragagni estrae il piano della “Fabbrica sul Mare”, l’investimento da 70 milioni di euro che la sua Tratos intende fare per allargare la sua produzione di cavi a quelli sottomarini.
L’imprenditore aretino, che in questi anni ha creato vicino a Liverpool uno stabilimento da affiancare ai quattro che la Tratos ha in Italia, ha individuato in Scozia e Irlanda del Nord aree in cui realizzare il suo nuovo sogno imprenditoriale.
Ma il referendum del 23 giugno per decidere se uscire dall’Ue ha portato la Tratos a aspettare, e studiare con più attenzione sedi alternative, in Belgio e Spagna.
«L’investimento è un unicum per noi e dobbiamo essere sicuri di cosa succederà», dice. «I milioni non vogliono incertezza. Sono la terza generazione della mia azienda familiare e non ho intenzione di essere l’ultima».L’incertezza è una sensazione nuova per la Gran Bretagna, un paese che negli ultimi cinque anni si è presentato al mondo come un’isola di stabilità ai margini di un’eurozona in tempesta. Dopo i giorni bui del 2008-9, in cui il governo ha dovuto nazionalizzare alcune banche, l’economia si è rimessa in marcia. La disoccupazione è scesa rapidamente e il mercato immobiliare di Londra è diventato un porto sicuro per i capitali internazionali. La sterlina è ricominciata a salire, anche grazie all’aspettativa che la Banca d’Inghilterra avrebbe alzato i tassi d’interesse dai livelli prossimi allo zero toccati con la crisi.
Anche quando, subito dopo le elezioni dello scorso maggio vinte dai conservatori, il primo ministro David Cameron ha annunciato che il Regno Unito avrebbe rinegoziato la sua posizione con l’Ue in preparazione di un referendum, la sua promessa aveva causato pochi scossoni sui mercati.
All’epoca, sembrava infatti che il fronte della “Brexit” sarebbe stato composto soltanto dallo Uk Independence Party di Nigel Farage, un partito di destra che raccoglie intorno al 12% dei voti, e da una piccola minoranza di deputati conservatori. Troppo poco per rendere l’uscita una possibilità concreta.
La decisione da parte del sindaco di Londra, Boris Johnson, uno dei politici più popolari, di schierarsi a favore del fronte del “Leave” ha aumentato di molto le probabilità che, dopo oltre 40 anni di permanenza nell’Ue, la Gran Bretagna possa andarsene. I sondaggi indicano poca distanza tra le due fazioni, rendendo la partita incerta. La reazione degli investitori non è tardata. Lunedì 22 febbraio, il giorno dopo la discesa in campo di “BoJo”, la sterlina è crollata. «Improvvisamente, gli investitori hanno visto il fronte a favore di Brexit come un’alternativa credibile», dice Raoul Ruparel, direttore di Open Europe, un think tank. «Ora ci sarà molta incertezza, soprattutto sulla sterlina, mentre è più difficile capire esattamente cosa succederà alle azioni».
Un mercato che sembra subire i contraccolpi di questa inquietudine è quello delle case milionarie del centro di Londra. Negli ultimi mesi, i prezzi sono cominciati a scendere, anche a causa dell’aumento di offerta di appartamenti di lusso in un mercato ormai saturo.
«La domanda per questo tipo di appartamenti dipende in parte dagli investitori internazionali», dice Noble Francis, capo economista dell’associazione di produttori di materiali edili. «È molto probabile che l’incertezza prima del referendum rallenti gli acquisti, dato che gli investitori preferiranno aspettare». Anche tra i piccoli fondi di investimento che tradizionalmente compongono il sottobosco della City ci si prepara a una fase di turbolenze. Davanti a una tazza di tè, Dominic Johnson, a capo della Somerset Capital Management, dice di essere pronto ad «almeno un anno di instabilità».
«Gli investitori vedevano in Londra stabilità e prevedibilità totali, ma oggi non è più così. Se un investitore straniero deve scegliere fra un fondo britannico e uno americano della stesso tipo, oggi preferisce il secondo».
Johnson è il presidente della New City Initiative, un consorzio di una cinquantina di fondi, che muovono intorno ai 600 miliardi di dollari. L’associazione non ha una posizione comune sul referendum, ma Johnson dice che molti dei suoi membri voteranno per “Brexit”.«Per noi non c’è un vero mercato comune europeo: non posso andare in Germania e vendere i miei fondi, devo registrarmi e obbedire a delle regole locali. Allo stesso tempo, dobbiamo soffrire questa regolamentazione eccessiva. Le piccole aziende del settore finanziario vivono il peggio del peggio dell’Ue».
Il sogno degli euroscettici è trasformare la City, e la Gran Bretagna più in generale, in una nuova Singapore, un centro di servizi finanziari e commerciali che possa prosperare grazie a rapporti con tutto il mondo invece di essere bloccato dall’Ue. Per Roger Bootle, a capo della società di consulenza Capital Economics, l’incertezza iniziale è un prezzo che vale la pena pagare per entrare in una nuova fase, fatta di minore regolamentazione e tasse più basse.
«Quando Singapore ha lasciato la Federazione della Malesia, la situazione economica era preoccupante», dice. «Ma questo galvanizzò le elite. Lo stesso potrebbe accadere alla Gran Bretagna».Per Bootle, “Brexit” sarebbe un modo di slegarsi da istituzioni che tendono a prendere decisioni sbagliate. «Non so cosa farà l’Ue in futuro, ma se uno guarda alle scelte fatte in passato, dall’euro a Schengen, i precedenti non mi sembrano incoraggianti. La Gran Bretagna starebbe meglio fuori».
Il punto di vista euroscettico di molte società di servizi finanziari più piccole non combacia però con quello delle grandi banche e fondi di investimento. BlackRock, il principale asset manager del mondo, ha detto che una Brexit provocherebbe «gravi rischi, senza portare nessun guadagno certo». A fare paura è soprattutto il deficit della bilancia commerciale, pari a quasi il 5% del prodotto interno lordo. Mark Carney, il governatore canadese della Banca d’Inghilterra, ha detto che la bilancia dei pagamenti britannica dipende dalla «generosità degli stranieri». Lo scenario catastrofico è quello di una fuga di capitali. Quello più probabile è che gli investitori continuino a comprare titoli britannici, ma chiedano rendimenti un po’ più alti, causando una stretta del credito.
L’altra paura, diffusa anche fuori dalla capitale, riguarda il futuro degli investimenti diretti. Emma Reynolds, deputata dell’opposizione laburista che, come quasi tutto il suo partito, farà campagna per stare nell’Ue, dice che nella sua circoscrizione di Wolverhampton North East, nel centro dell’Inghiltera, ci sono molti elettori che temono per le ricadute sull’occupazione di Brexit.
«Si parla molto di immigrazione, ma anche di posti di lavoro. La Jaguar Land Rover, che ha fatto un grosso investimento ai margini della mia circoscrizione creando 15.000 posti, ha detto che sarebbe un problema se uscissimo dall’Ue, una dichiarazione importante». Per la Reynolds, però, al fronte del “Remain” non basterànno i messaggi negativi. «Ci sono tanti che hanno a cuore la stabilità. Ma dobbiamo presentare anche ragioni positive per stare nell’Ue».
A Farringdon, Bragagni spera che alla fine la razionalità dei britannici abbia la meglio. «Mi affido al senso pratico degli inglesi», dice, mostrando con orgoglio le foto dei suoi incontri con Cameron e il ritratto della regina appeso sulla porta dell’ufficio. «Comunque vada, non abbandoneremo l’Inghilterra. Ma se davvero si uscisse dall’Ue, dovremo capire come ristrutturare il nostro business».