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 2016  febbraio 14 Domenica calendario

Il rating dell’Italia è sottostimato

Non appena riesplodono tensioni e turbolenze sui mercati finanziari, come sta avvenendo in questi giorni, subito si riaccende come da copione il dibattito sul debito pubblico dell’Italia, sia all’esterno sia all’interno del nostro Paese.
Ma essere d’accordo in generale sulla negatività dell’indebitamento pubblico e sulla necessità di ridurlo è una cosa ragionevole e condivisibile. Altra invece è mettere sistematicamente in cattiva luce il debito italiano anziché difenderne la sostenibilità e onorabilità nel legittimo interesse nazionale.
Continua pagina 2 Marco Fortis Continua da pagina 1 Purtroppo, invece, c’è da tempo nelle nostre élites un diffuso “nocciolo duro” che, immancabilmente, non è mai d’accordo con nessun Governo di turno su come vengono gestiti i conti pubblici.
Un “nocciolo duro” che non esita ad essere sempre in prima linea nel definire l’Italia “a rischio default”, non diversamente da come farebbe un qualunque “falco” (ministro, commissario europeo o banchiere centrale del Nord Europa che sia) o anche un semplice straniero pieno di pregiudizi sul nostro Paese. In questo noi italiani siamo abbastanza unici perché nelle altre nazioni invece si guardano bene dal dipingere i loro debiti pubblici come “pericoli” e dal farsi cattiva pubblicità.
Molto pragmaticamente, allo stato attuale ciò che converrebbe di più all’Italia è in primo luogo pagare un po’ meno interessi sul debito, oltre che ridurre il peso del debito stesso sul Pil. Ma per pagare meno interessi, anziché sterili polemiche, allarmismi ingiustificati, lezioni “dotte” sul come fare, servirebbe una maggiore compattezza nazionale nel dare all’esterno una rappresentazione il più possibile corretta dello stato reale dei nostri conti pubblici.
Un recente Rapporto della Commissione Europea, ad esempio, ha definito il debito pubblico italiano a “basso rischio” nel breve termine (2016-17), ad “alto rischio” nel medio termine (2017-2026), peraltro assieme ai debiti di altri 10 Paesi tra cui Francia, Gran Bretagna, Spagna e anche Finlandia, e il debito meno rischioso in assoluto nel lungo termine (sull’orizzonte 2030). Si noti poi che nello scenario di base della Ue il debito italiano è stato definito ad “alto rischio” nel medio termine esclusivamente perché incapace di convergere al ritmo voluto dalle attuali rigide regole europee verso l’obiettivo altrettanto rigido del 60% sul Pil nel 2030. Un obiettivo che nessuna nazione al di fuori dell’area Euro oggi si sognerebbe mai di porsi perché, diciamolo pure, il 60% forzato era già un obiettivo “stupido” in partenza quando fu concepito il Fiscal Compact ma lo è ancor di più oggi dopo aver visto sul campo i disastri provocati in Europa dall’austerità senza crescita. Mentre nello stesso scenario di base prefigurato dalla Commissione Ue, l’Italia, pur essendo considerata ad “alto rischio” nel medio termine, sarà comunque il Paese che ridurrà di più il proprio debito tra il 2017 e il 2026 abbassandolo di 19,9 punti dal 130% al 110,1%. Non è una dimostrazione sufficiente di impegno?
Altrettanto importante che ridurre il rapporto debito/Pil è poi spiegare con argomenti solidi che l’Italia è un Paese che non merita assolutamente il rating BBB- che le assegna oggi l’agenzia di rating S&P: un livello che ci penalizza in modo ingiustificato sui mercati finanziari. Come può l’Italia, con tutto il rispetto, essere valutata allo stesso livello della Romania o un gradino appena superiore a quello del Portogallo, essendo la terza economia dell’Eurozona, avendo la seconda miglior bilancia commerciale manifatturiera con l’estero della Ue e avendo sempre presentato ininterrottamente (unico caso al mondo) un avanzo statale primario positivo dal 1992 ad oggi con la sola breve (insignificante nei numeri) parentesi del 2009?
L’Italia è valutata BBB- essenzialmente perché ha il rapporto debito/Pil alto (oggi al 132,8%, ma gli Stati Uniti non sono forse anch’essi al 105,6%?) e perché cresce poco (senza peraltro usare il deficit come fanno abbondantemente altri Paesi). Ma non conta nulla, a compensazione di ciò, avere una economia reale solida? Una ricchezza privata interna con pochi eguali nel mondo? Uno dei più bassi debiti delle famiglie in rapporto al Pil? Una posizione finanziaria netta sull’estero di tutta sicurezza? È così grave – nuova freccia all’arco dei nostri detrattori – avere banche con accresciuti NPLs (peraltro ben coperti da rettifiche e garanzie reali) derivanti da normali attività di prestito all’economia reale anziché bilanci poco trasparenti imbottiti di titoli tossici (non garantiti da nulla) come molte banche sistemiche del Nord Europa? Inoltre, non conta niente aver dimostrato nel corso degli anni di avere una performance fiscale consolidata da Paese nordico? E avere un basso debito pubblico nelle mani di investitori non residenti (diversamente dai Paesi davvero a rischio)?
La tabella 1 a fianco risponde chiaramente a chi continua a sostenere che l’Italia vuole fare “pasti gratis” in Europa. Infatti, il nostro Paese negli ultimi 10 anni è stato dopo la Danimarca quello che ha generato il più alto avanzo statale primario cumulato prima del pagamento degli interessi, pari al 14,1% del Pil. Nell’area cerchiata in verde sono raffigurati i Paesi più “virtuosi” nella gestione delle finanze pubbliche: assieme all’Italia e alla Danimarca ci sono la Germania, il Lussemburgo e la Svezia, tutti con più di 10 punti cumulati di surplus primario in percentuale del Pil negli ultimi 10 anni. Eppure il rating dell’Italia è solo BBB-. E anche Fitch e Moody’s, pur più generose di S&P, ci elevano al massimo al livello della Spagna, i cui conti pubblici sono fuori controllo ormai da anni e le cui banche sono state salvate anche col nostro contributo.
La tabella 2 mostra invece che l’Italia è tra i pochi Paesi che abbiano contemporaneamente un avanzo statale primario cumulato positivo e un basso livello di debito in mani estere rispetto al Pil. Il nostro debito pubblico detenuto da non residenti nel 2014 era infatti pari a solo il 44,4% del Pil, valore più o meno uguale a quello della Germania (42,3%). Tra le nazioni che posseggono contemporaneamente tali due caratteristiche (tradotto in soldoni, significa avere la capacità teorica di pagare cash ogni anno tutti gli interessi ai creditori stranieri) vi sono soltanto, oltre a Germania e Italia, il Lussemburgo, l’Estonia e la Finlandia, nonché la piccola Malta. Insomma, la crème delle triple AAA e qualche AA+ e AA-. Tranne l’Italia, ovviamente, che se ne sta lì tutta sola e poco considerata in quel gruppo come una Cenerentola col suo povero rating BBB-.
Tenuto conto che gli argomenti non ci mancano di certo, non sarebbe forse ora che gli italiani diventassero tutti un po’ più avvocati del loro debito pubblico? Con ratings migliori, come minimo pagheremmo meno interessi, gli investitori scommetterebbero di più sulle nostre imprese e sulle nostre banche, difenderemmo meglio i nostri stessi risparmi e ci guadagneremmo anche in potenziale di crescita. O vogliamo andare avanti a dipingerci per sempre come un Paese a “rischio default”?