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 2016  febbraio 14 Domenica calendario

Il lamento di Francesco Gangemi: «Una vita contro i mafiosi, e ora mi arrestano a 81 anni»

Se questo è un giornalista. Se questo è un uomo. Se questa è giustizia. Se questo è un Paese civile e democratico. Nella sua casa, al terzo piano di un qualunque condominio di quell’ammasso di cemento che è Reggio Calabria – il sacco edilizio di questa città non è stato da meno del sacco di Palermo —, vive, o forse sarebbe meglio dire sopravvive, un distinto signore dai capelli bianchi e dalla parola tagliente. Si chiama Francesco Gangemi, è giornalista da quarant’anni e dirige un periodico, «Il Dibattito» (ora anche online Dibattitonews.wix.com), che da quando è nato ha tolto il sonno a mafiosi, corrotti e a molti, moltissimi magistrati, che in questo giornalista – figlio di un regio carabiniere che a Roma sventò un attentato contro il re d’Italia – hanno sempre visto un grandissimo rompicoglioni. Alla fine, ce l’hanno fatta. Gangemi è stato «impacchettato», come dice lui, con una raffica di condanne per diffamazione a mezzo stampa e una, l’ultima, per essersi rifiutato di rivelare le proprie fonti fiduciarie. Quindi non per aver scritto il falso, ma per aver offeso «l’onore e la reputazione» dei querelanti e, soprattutto, per non avere violato il segreto professionale, che per un giornalista non è meno sacro di quanto lo sia per un medico, un avvocato, un sacerdote, un magistrato.
E così, i magistrati ai quali Gangemi chiedeva conto gli hanno presentato un «conto» di due anni e undici mesi di reclusione e alla fine dell’anno scorso lo hanno fatto arrestare. Se farà il bravo, Gangemi otterrà uno «sconto» di tre mesi all’anno e potrà trascorrere in questa umiliante condizione «soltanto» due interi anni, il 2016 e il 2017.
Non era la prima volta che gli mettevano le manette, ma in questo caso hanno dovuto «graziarlo» con l’affidamento ai servizi sociali, perché Gangemi, questo mostro, questo pericolo pubblico, ha 81 anni ed è invalido al cento per cento, a causa di un cancro che ha ostinatamente superato con la radioterapia e di un delicato intervento chirurgico al cuore che lo fa vivere appeso a un filo. «Vengo trattato peggio di Brusca – dice a “la Lettura” – e di tutti quei criminali sanguinari chiamati “pentiti” e ricompensati con denaro dei cittadini».
È evidente e persino scontato che la Corte europea dei diritti dell’uomo farà a pezzi questi provvedimenti, censurando ancora una volta l’Italia che mette in galera i giornalisti e che trova «normale» stare in Europa pur tenendo la stampa sempre sotto schiaffo (tra galera, perquisizioni, sequestri e risarcimenti milionari, specialmente quando le presunte parti lese sono loro, i magistrati).
La Legge però sa essere cinica e spietata e dunque Gangemi adesso è recluso in casa perché, dice il provvedimento del giudice di sorveglianza di Reggio Calabria, è «socialmente pericoloso», «ha bisogno di essere rieducato», deve osservare l’assoluto divieto di frequentare «delinquenti, mafiosi e botteghe nelle quali vengono somministrate bevande alcoliche», può uscire di casa «solo dalle ore 7 alle 21, ma limitatamente alla provincia di Reggio Calabria, salvo autorizzazione del magistrato» e «ogni settimana dovrà telefonare al magistrato di sorveglianza», che, ogni tre mesi, relazionerà al ministero della Giustizia sulla sua condotta.
Francesco Gangemi può essere considerato un giornalista più o meno bravo, più o meno chic, ma di sicuro è un giornalista che si è sempre assunto la responsabilità dei propri articoli, ha sempre chiesto che fine facevano certe denunce e certe inchieste quando le vedeva evaporare in nuvole di parole in cui, immancabilmente, «la giustizia deve fare il suo corso», e non si è mai intruppato nelle pelose processioni dei professionisti dell’antimafia. Gangemi è uno che nella libertà di stampa ci crede. «Non mi arrenderò mai – dice —. Anche se so bene che le mie catene non si sono più allentate da quando ho cominciato a criticare, carte alla mano, mafiosi e magistrati. Questi ultimi non hanno mai tollerato due cose: che indicassi quelli di loro che sono collusi e corrotti, e infatti alcuni di quei magistrati sono stati poi condannati a pene pesanti, e che facessi i nomi di quelli che insabbiavano i processi, sia le grandi inchieste, come l’affondamento delle navi cariche di scorie radioattive nel nostro mare, sia le “ordinarie” storie di appalti truccati, di tangenti, e di favori a magistrati e loro parenti».
I guai di Gangemi cominciano alla fine degli anni Novanta, quando diventa di dominio pubblico lo scandalo dell’inabissamento in mare, doloso e danaroso, di almeno una ventina di navi cariche di scorie radioattive. Una torbida vicenda in cui erano coinvolti l’Italia e altri Stati europei e africani, i servizi segreti, la ’ndrangheta, e che fu la causa dell’assassinio in Somalia – Mogadiscio, 20 marzo 1994 – dei giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, e poi – Reggio Calabria, 12 dicembre 1995 – della improvvisa morte, avvenuta per avvelenamento, dell’ufficiale della Capitaneria di Porto, Natale De Grazia, che su questa storia molto bene indagava e troppe cose sapeva. Tanto che nel 2004 il presidente Carlo Azeglio Ciampi lo premiò con la medaglia d’oro alla memoria, elogiandolo per il lavoro svolto «nonostante – disse il capo dello Stato – pressioni e atteggiamenti ostili».
Gli stessi atti ostili e le stesse pressioni che Gangemi ha denunciato per anni, chiamando in causa, insistentemente e a volte anche pesantemente, quasi tutti i magistrati di Reggio Calabria e non solo, i quali secondo lui, «l’ho scritto nel pieno esercizio del diritto di critica garantito dalla Costituzione, e lo ribadisco», erano «colpevoli» di far poco o nulla di fronte a fatti gravi e documentati.
«Non hanno mai nemmeno ascoltato i testimoni da me citati – racconta Gangemi —. Invece le querele contro di me, da parte di magistrati e di condannati per mafia, fioccavano. Querele temerarie, ma chi le faceva era sicuro che prima o poi qualche condanna per diffamazione sarebbe arrivata». Ancora poco, però, in confronto a ciò che gli accadde il 4 novembre 2004, quando a casa sua alle cinque del mattino arrivarono 17 volanti della polizia. Lo perquisirono, gli sequestrarono tutto e lo arrestarono. Le accuse: articolo 416 bis, associazione mafiosa, e articolo 338, minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato. Era accaduto che Gangemi avesse pubblicato sul suo giornale, l’unico ad averlo fatto in Italia, i verbali di udienza (pubblici) di un processo per fatti di mafia che si stava svolgendo a Catania e in cui erano pesantemente coinvolti alcuni magistrati calabresi. Con Gangemi, e con le stesse accuse, la procura di Catanzaro (procuratore Lombardi, pm Spagnolo e de Magistris, l’attuale sindaco di Napoli) arrestò anche l’avvocato Ugo Colonna, stimato professionista e testimone di giustizia, e fece persino chiudere il giornale. Colonna e Gangemi furono poi assolti con formula piena. Il presidente Ciampi definì Colonna, che restò in carcere, tra i mafiosi, per una decina di giorni, «l’Ambrosoli del Sud», mentre Gangemi fece un mese in cella, anche lui tra pericolosi mafiosi, e altri nove mesi ai domiciliari, con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa.
A Gangemi è stato successivamente riconosciuto un risarcimento di 625 mila euro per ingiusta detenzione, ma non ha visto un soldo. Quella somma l’ha requisita Equitalia. «Nel 1989 – dice —, come dirigente della Usl di Reggio Calabria avevo riconosciuto ad alcuni dipendenti, nel rispetto della legge, qualifiche professionali superiori. Che però sono state giudicate “danno erariale”. Insomma, hanno trovato il modo di tenersi i soldi per il carcere ingiusto che ho patito». L’ultima parte della sua vita, Gangemi la sta vivendo da carcerato in casa. «Mi hanno fatto male, mi hanno rubato il mio modo di vivere», dice. «Ma finché vivrò, non mi arrenderò».