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 2016  febbraio 14 Domenica calendario

Dubai e Abu Dhabi, come l’Arabia Saudita, l’Oman, il Kuwait, il Bahrein e il Qatar stanno scoprendo qualcosa di nuovo per loro: le tasse

 La sera, il Burj Khalifa domina su Dubai con i giochi di luce che si inseguono sulle sue pareti lunghe quasi un chilometro. Ai piedi del grattacielo più alto al mondo, niente sembra cambiato da quando il prezzo del petrolio è crollato da 114 dollari al barile a metà del 2014, a sessanta a metà del 2015, fino a meno di trenta oggi. Stessa prosperità, stessa fiducia incrollabile nel futuro che spinge i monarchi della regione verso investimenti sempre più audaci. Con quasi un milione e mezzo di stranieri da ogni parte del mondo – professionisti del commercio, della finanza o delle tecnologie – il cuore di Dubai non aveva mai pulsato così in fretta.
Solo dai dettagli affiorano in superficie gli effetti delle forze globali che oggi scuotono il Golfo, e da qui trasmettono le loro scosse fino all’Europa attraverso i mercati finanziari. I grandi alberghi di Dubai sono sempre sfarzosi, ma ora riscuotono una tassa di soggiorno. Il «Museo del Futuro» espone le tecnologie più stupefacenti dei prossimi anni, ma gli abitanti dell’emirato devono mantenerlo versando una «commissione per l’innovazione». Dubai e Abu Dhabi, come l’Arabia Saudita, l’Oman, il Kuwait, il Bahrein e il Qatar stanno scoprendo qualcosa di nuovo per loro: le tasse. Il regime di Riad, in profondo deficit, ha già cancellato una lunga lista di sussidi alle imprese; e da qualche settimana i petro-Stati del Golfo si sono messi d’accordo per introdurre, nel 2018, un’imposta sul valore aggiunto.
Queste monarchie stanno scoprendo il significato della parola scarsità. Le loro risorse non sono più destinate a crescere ogni anno. Al contrario, sono venute meno all’improvviso con il crollo del greggio. Nasser Saidi, ex capoeconomista del Dubai Financial Centre, consulente di molti dei governi del Golfo, fa conti spietati: «La perdita di entrate da petrolio per i sei Paesi del Golfo è di circa 260 miliardi di dollari l’anno. È uno tsunami», dice.
Soprattutto, non è passeggero. Poco più di un anno fa l’Arabia Saudita stupì il mondo bloccando nell’Opec, il cartello del petrolio, qualunque idea di un taglio della produzione per sostenere i prezzi. Il disegno era chiaro: lasciare che le quotazioni cadessero per mettere fuori dal mercato i produttori ad alto costo: il Canada, il Brasile, soprattutto le aziende del petrolio di scisto (shale oil) negli Stati Uniti. Solo nel Golfo due terzi delle riserve restano estraibili con profitto anche quando il barile è a venti dollari.
Quindici mesi dopo, le petro-monarchie devono arrendersi alla nuova realtà: sul petrolio non comandano più loro. «La domanda non è quanto possano resistere i Paesi del Golfo a queste quotazioni, ma cos’altro possano fare» osserva Fabio Scacciavillani, capoeconomista del fondo sovrano dell’Oman. «La strategia messa in atto è ormai l’unica praticabile». Tagliare la produzione per far risalire i prezzi significherebbe lasciare che l’Iran conquisti quote di mercato dell’Arabia Saudita e che lo shale oil riprenda a pompare negli Stati Uniti e, domani, anche di più in Argentina. Nasser Saidi, il super consulente di Dubai, riassume il nuovo equilibrio: «L’Arabia Saudita non è più il produttore marginale, quello che determina il costo del greggio – dice —. Quel ruolo oggi spetta ai produttori di shale».
L’effetto, previsto per la prima volta da un rapporto di Leonardo Maugeri per Harvard nel 2012, è una lunga era di prezzi freddi. A Dubai, quanto a questo, nessuno mette più la testa nella sabbia del deserto. «Non vogliamo più essere legati solo a una risorsa e a un prezzo, continuare a vivere come abbiamo fatto fino a oggi non è più un’opzione» dice Thani Ahmed Al-Zeyoudi, alto rappresentante degli Emirati nel settore dell’energia.
Nel frattempo però, in attesa di nuove fonti di reddito, resta l’urgenza di non far saltare i bilanci di questi Stati. Le entrate sono crollate del 10% del Pil e il Fondo monetario internazionale prevede nel Golfo un buco da mille miliardi l’anno. Per questo le monarchie scongelano le riserve per far fronte alle spese. Solo il valore del fondo sovrano dell’Arabia Saudita è crollato in un anno da 850 a 670 miliardi di dollari: tutte vendite di titoli che contribuiscono ad affossare i mercati finanziari globali in questi mesi. L’approdo a una nuova normalità, visto dalla cima del Burj Khalifa, sembra ancora distante.