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 2016  febbraio 14 Domenica calendario

Non sapremo mai la verità su Giulio Regeni. Sergio Romano spiega perché

Non sapremo mai con esattezza che cosa sia realmente accaduto al giovane Giulio Regeni quando è stato fermato dalla polizia egiziana il 25 gennaio. Il governo del Cairo continuerà a dichiararsi addolorato per la tragica morte di un cittadino italiano e prometterà che le indagini saranno indipendenti e scrupolose. Ma se le cose sono andate come è lecito supporre, il nome dei veri responsabili rimarrà un segreto di Stato e le circostanze della morte difficilmente ricostruibili. Nella prospettiva del Cairo la riparazione di un atto ingiusto e crudele è molto meno importante, in questo momento, della efficacia del dispositivo di sicurezza con cui il Paese si difende dai jihadisti dell’Isis e dalla fazione radicale della Fratellanza musulmana. E sappiamo che non vi è purtroppo un forte sistema di sicurezza, in un Paese minacciato dal terrorismo islamista, se il governo non lascia ai suoi servizi di polizia un certo margine di libertà.
Possiamo indubbiamente deplorare i mezzi con cui il maresciallo Al Sisi ha conquistato il potere e la brutalità con cui impedisce alla stampa di fare il suo lavoro. Ma dubito che un governo straniero possa persuaderlo, in questo momento, a modificare i suoi metodi.
Che cosa sarebbe successo se avessimo preteso di spiegare al governo britannico quali erano i metodi accettabili per la lotta contro il terrorismo dell’Ira (Irish Republican Army). Che cosa sarebbe successo se le democrazie europee, dopo gli attentati alle Torri Gemelle, avessero detto al governo americano che i metodi della Cia erano intollerabili, che Guantanamo era un orrendo lager, che non era giusto rapire un imam nelle strade di una delle nostre città per trasferirlo in un Paese (spesso, guarda caso, l’Egitto) dove sarebbe stato torturato? È probabile che in quel momento e in quelle circostanze la risposta britannica e quella americana sarebbero state meno educate di quella ipocrita, ma cortese, con cui il Cairo reagisce alle nostre sollecitazioni.
Resta naturalmente la misura a cui i governi ricorrono quando vogliono dimostrare rabbia e sdegno per il comportamento di uno Stato straniero: l’interruzione dei rapporti diplomatici. Ma una tale via d’uscita non avrebbe altro risultato fuor che quello di privarci dei nostri abituali contatti con uno dei maggiori protagonisti dalla regione. Saremmo meno informati su ciò che accade in Medio Oriente e perderemmo il capitale di amicizia che l’Italia ha costruito con quel Paese nel corso degli anni.
Occorre riconoscere che siamo in una situazione difficile e imbarazzante. Non possiamo restare indifferenti di fronte a ciò è accaduto in una via del Cairo qualche giorno fa. Ma non possiamo neppure dimenticare che l’Egitto sta combattendo contro un mostro responsabile, tra l’altro della distruzione di un aereo russo pieno di turisti nel cielo di Sharm el Sheikh il 31 ottobre dell’anno scorso e dei massacri di Parigi nello scorso novembre, che si sta difendendo da una organizzazione terroristica che considera Roma uno suoi prossimi obiettivi. Piaccia o no, l’Egitto, in questo momento, è un alleato, non un nemico. Questo non significa che i metodi del governo egiziano debbano essere necessariamente condonati. Oggi più che mai abbiamo il diritto di dire al Cairo che non si vince una guerra, sia pure contro il peggiore e il più crudele dei nemici, senza il sostegno dalla pubblica opinione. È una legge democratica a cui neppure l’Egitto può sottrarsi.