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 2016  febbraio 14 Domenica calendario

Parole che non vanno dimenticate, ovvero il dizionario privato di Federico Roncoroni

Un tempo sarebbe stato un Sillabario della memoria, per citare un suo libro formato dizionario pubblicato con successo da Salani nel 2010: adesso, invece, Federico Roncoroni ha deciso di pubblicare le sue Parole – in uscita domani per Mondadori (pagg. 128, euro 12) – in una sorta di «dizionario privato» che si apre al lettore in una continua (ri)scoperta di termini non desueti, ma spesso consunti dal velo di una nuova letteratura del neologismo, di un linguaggio comune sempre più lontano dalle nostre tradizioni. «Le parole che amo – ci racconta l’autore – sono parole che mi hanno fatto e mi fanno diverso dagli altri uomini e dalle altre donne ma, nello stesso tempo, mi rendono uguale o simile a tanti altri uomini e a tante altre donne, cui, in modo misterioso, quasi sensuale, mi legano con il sottile filo di seta dei loro significanti e dei loro significati, e delle memorie che racchiudono».
Esperto di didattica, Roncoroni è autore della Grammatica italiana più venduta al mondo, di antologie di letteratura per i licei classici (come il bestseller Testo e contesto), e l’intellettuale che, a metà degli anni ’80, con Il libro degli aforismi, giunto oggi a 26 edizioni per Mondadori, ha contribuito alla riscoperta di un genere. Nel 2013 ha pubblicato il suo primo romanzo, Un giorno, altrove (Mondadori) con grandissimo riscontro di critica e di lettori e nel 2015 una raccolta di racconti di passione linguistica, letteraria e libraria: In principio era la Parola (Mondadori). In queste Parole Roncoroni coniuga il rigore dello studioso all’ironia e alla sagacia dello scrittore in un libro che come filo conduttore ha la passione. Passione intesa non solo come sentimento amoroso o erotico, ma anche come un respiro di vita che ci racconta un piccolo mondo antico che pare perso nella memoria ma viene vivificato attraverso vicende personali o familiari. Non è la narrazione dell’io, ma la scrittura di un «noi» dimenticato, quasi rimosso. Di una comunità, di un Paese, di una civiltà che non solo si devono ricordare delle proprie parole, ma che dobbiamo anche difendere iniziando proprio dalle parole. Quelle che nessun jobs act o stepchild ci toglieranno mai.
Gian Paolo Serino
 
BARZOTTO
C’è chi gli piace ben duro e c’è anche chi gli piace barzotto. Alla zia Evelina l’uovo cotto in acqua bollente piaceva bello sodo, mentre a suo marito, lo zio Adelmo, piaceva barzotto, cioè un po’ molle. Così, secondo i racconti dei loro figli, i miei cugini Teo e Sara, quando a pranzo o, di solito, a cena, c’erano uova sode, i due avevano sempre motivo di litigare: per l’Evelina non era mai abbastanza duro, per l’Adelmo non era mai abbastanza molle. E, racconta Teo, il più delle volte la contesa trascendeva in rinfacciamenti anche pesanti: con la zia che provocatoriamente diceva che a lei di barzotto non piaceva niente e che, in ogni caso, almeno l’uovo lo voleva ben sodo e duro. L’aggettivo «barzotto» (o «bazzotto») deriva dal latino badiu (m), «di colore baio», cioè «incerto, intermedio, tra il rosso e il bruno», con l’aggiunta di un suffisso attenuativo. Testimoniato in italiano fin dai primi anni del Seicento, si dice propriamente di un uovo cotto con il guscio in modo tale da non diventare del tutto sodo.
GARBO
Il mio gatto – quando avevo un gatto – si assentava spesso per periodi di tempo più o meno lunghi: un paio di giorni, una settimana o due e una volta anche un mese. Dove andava e a fare cosa ho potuto solo immaginarlo, però quello che contava è che tornava sempre: un po’ spelacchiato, molto stanco e di fatto affamato, ma visibilmente felice. Quello che più mi sorprendeva, di fatto, non è che se ne stesse via tanto a lungo e poi tornasse: era l’atteggiamento che assumeva quando mi compariva davanti, prima di verificare che le sue cose fossero lì pronte per accoglierlo e di reclamare da mangiare. Entrava dalla parte del giardino attraverso la gattaiola, con l’aria di chi si era assentato per una mezz’ora soltanto, mi guardava come se si domandasse perché mai mi mostravo così sorpreso e così contento di vederlo e tirava dritto come se fosse stato un giorno qualsiasi e tutto, persino il suo improvviso ritorno a casa – quindi la sua lunga assenza e la mia ansiosa attesa – fosse la cosa più normale del mondo: era stato via ed era tornato, sembrava dire, e allora?
Sempre così faceva, Micio Macio. Provava, lo so, la stessa gioia di ritrovarmi che io provavo nel rivederlo, ma con in più il buon gusto e la classe di non manifestarlo apertamente, per evitare di ostentare una felicità che era comune ad entrambi e dare troppo peso a una cosa ovvia.
Questo è, per apologo, l’illustrazione del significato profondo della parola «garbo» che, a bene intenderla, indica l’insieme dei modi compiti, pacati e cortesi ma non per questo meno appassionati, di comportarsi e di esprimere i propri sentimenti che caratterizza gli amori veri nei rapporti reciproci, nonché la finezza e la buona grazia di non dare spiegazioni a chi non penserebbe mai di chiedertele perché si fida di te.
LEMME LEMME
Nel piccolo repertorio di parole e di espressioni che secondo il maestro Miriani dovevamo usare per arricchire il nostro lessico e i nostri componimenti di alunni di Quinta elementare, la più curiosa era «lemme lemme». Al vecchio maestro, che la suggeriva insieme ad altri capolavori di maestrese antico, come «smargiasso», «viottolo», «marachella», «cucù», «uggia», «stizza», «piagnisteo» e anche «fare le bizze», «andare di gran carriera», «restare di stucco», piaceva molto, ma nessuno di noi bambini trovò mai l’occasione di inserirla dentro un proprio tema. Tuttavia, l’espressione ebbe un gran successo per il suono e per l’immagine che veicolava: la usavamo scherzosamente per prenderci in giro e ancora oggi, io e mio cugino Severino, che allora era mio compagno di scuola e oggi è mio compagno di ricordi, ci ridiamo su: «E se lemme lemme ce ne andassimo a casa?».
PASSERINA
Di colore giallo paglierino con riflessi dorati, ha profumo intenso e allo stesso tempo delicato, di caprifoglio e acacia su un fondo di agrumi e un sapore lievemente acidulo. In bocca risulta morbido e avvolgente e ha una deliziosa persistenza. Proviene da un vitigno autoctono diffuso nel sud delle Marche e nelle zone confinanti dell’Abruzzo e del Lazio. Deve il suo nome al fatto che i passeri dimostrano una particolare predilezione per gli acini della sua uva, che sono di piccole dimensioni e hanno una polpa molto sugosa. I contadini di una volta lo chiamavano anche cacciadebiti o pagadebiti, per via della sua resa produttiva molto alta. Io lo gusto solo nelle Marche, preferibilmente nella versione di 13% vol., alla temperatura di 8-10° centigradi, con i piatti di pesce e in calici tulipano che ne conservano la fragranza e la freschezza, e solo in compagnia di donne come Barbara e Monica che ne apprezzano financo il nome.
PUDÌCO
L’aggettivo «pudico» mi ha sempre risvegliato e stimolato pensieri impudichi. Sarà l’effetto perverso, a livello semantico, del gioco dell’antitesi che per contrasto mi richiama alla mente immagini di sensualità piena e clamante tutt’altro che caste e vereconde? O non sarà piuttosto la consapevolezza che la pudicizia è il dolcissimo punto di partenza di tutti gli sviluppi erotici che caratterizzano il vero amore e il condimento essenziale di ogni atto di amore? Credo che questa seconda, con tutti i ricordi che trascina con sé, sia l’ipotesi più fondata. Infatti, non riesco a immaginare scena più leggiadra, affascinante e seducente di quella di una ragazza pudica che, spogliandosi, si accinge a diventare impudica.