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 2016  febbraio 14 Domenica calendario

Nello studio di Ennio Morricone, lì dove le sue idee diventano capolavori (da Oscar?)

Nel salotto della sua abitazione romana, dentro un palazzo storico in pieno centro, con la luce invernale che batte sul nero brillante del pianoforte a coda, Ennio Morricone brontola, sorride, offre il caffè, sbuffa per gli agguati del fotografo («odio farmi ritrarre») e parla di sé con l’umiltà di un rigoroso artigiano. Pesca nei ricordi senza mai un gesto di retorica o di autocelebrazione. Rende tutto umano e quotidiano. Come il suo incontro con Pasolini: «Arrivò da me per Uccellacci e uccellini, il film con Totò. Mi diede una lista di brani da inserire e io gli dissi: mi diverto ancora a scrivere la mia musica, è venuto dalla persona sbagliata! Poi mi lasciò libero di comporre. Abbiamo fatto insieme cinque film. Però voleva che ci mettessi, per questioni scaramantiche, una musica preesistente. In Uccellacci e uccellini fu il tema di un’opera di Mozart, e lo inclusi eseguito da un’ocarina. Gli bastava che ci fosse. In Teorema, sempre per superstizione, volle il Requiem mozartiano e io ne misi una citazione nascosta nelle dissonanze».
Lo studio in cui lavora Morricone è chiuso a chiave. Dobbiamo insistere per entrarvi: «È troppo in disordine!», protesta il padrone di casa. In realtà è l’entusiasmante bottega di un frenetico creatore, generosa di passato e presente. La occupano migliaia di cd, partiture accatastate sui divani, carte e fogli di musica, poster di concerti appiccicati alle pareti, mensole cariche di statuette, medaglie, onorificenze e targhe di ogni foggia e materiale. L’Oscar è infilato di sguincio su una libreria, pare un signore di passaggio. Lo prese dalle mani del suo amico Clint Eastwood nel 2007, come riconoscimento alla carriera.
Ora è candidato all’Oscar per il suo primo film con Tarantino, The Hateful Eight, e perciò tra pochi giorni volerà a Los Angeles.
A ottantasette anni portati con asciutta eleganza, e con qualcosa come cinquecento titoli al suo attivo, Ennio Morricone è il sovrano del proprio territorio, capace di regalarci un patrimonio di memoria condivisa. Pensiamo per esempio ai soundtrack di C’era una volta in America e di Mission, al tormentone ironico e ardito di Scion Scion in Giù la testa, al brivido che provoca l’urlo magico del coyote ne Il buono, il brutto, il cattivo, all’onda di ambigua sensualità con cui ha impregnato Metti una sera a cena.
 
Certi suoi contrappunti a sei voci sono capolavori di apparente semplicità. Eppure distillano un bagaglio profondo, attinto dalla musica rinascimentale: niente è più arduo della conquista di un’incisiva limpidezza.
Per questo le melodie di Morricone risuonano in tutto il pianeta come un’eco fondamentale del nostro tempo.
C’è un metodo oggettivo e trasmissibile per costruire una colonna sonora?
«No, ciascun musicista ha il suo. Ma innanzitutto bisogna aver studiato musica e conoscere bene il mestiere. Io ho frequentato il Conservatorio di Santa Cecilia, a Roma, e ho avuto un maestro come Goffredo Petrassi. Poi ho accumulato molta esperienza nella musica commerciale lavorando alla Rca, dove realizzavo arrangiamenti per dischi di cantanti come Gianni Morandi, Miranda Martino e Gino Paoli. Il che mi ha permesso di sviluppare un senso del lavoro artigianale. Ricordo la registrazione della canzone Il barattolo,dove mischiavo agli strumenti il rumore di un barattolo sbattuto per terra come se rotolasse. Mica una robetta: era un autentico esperimento di musica concreta».
Come procede di volta in volta col regista?
«La musica dev’essere autonoma e acquisire importanza di per sé, senza confondersi col resto. D’altra parte l’orecchio umano, per sua natura, non può ascoltare due segnali diversi, cioè il dialogo e la musica, oppure la musica e i rumori. Ho cercato sempre di comunicare ai registi questa mia convinzione. Di solito lavoro sull’idea narrativa e poi scrivo, e al regista spiego quella che sarà la strumentazione, per quanto mi è possibile. Ma tutto dipende dal mio rapporto con lui. Con Tornatore, per esempio, ho fatto dodici film, e dunque con lui c’è una particolare intesa e so già cosa vuole. Così come lo sapevo con Montaldo e Bolognini. Se hai familiarità con uno stile cinematografico la sintonia scatta dall’inizio, mentre il primo film con un regista di solito è complicato».
Lo è stato con Tarantino?
«Sì, ho avuto difficoltà. Non ci conoscevamo e io non parlo inglese. Ho scritto una musica che lui non mi aveva chiesto, una composizione sinfonica che non somiglia a nessun’altra, preceduta da una vera Ouverture. Ho pensato a un pezzo che, nei timbri e negli strumenti, traducesse la personalità di Tarantino, ricca d’ironia, drammaticità, senso dell’assurdo e del paradosso, grande pietà verso le vittime. Mentre la registravo a Praga lui è venuto a sentirla e l’ha apprezzata.
Ho visto per intero The Hateful Eight solo quando la musica l’aveva già montata Tarantino negli Stati Uniti. Posso anche non esserci in fase di montaggio. La mia presenza potrebbe essere necessaria per tagli e allungamenti, ma non lo è sempre».
Di solito i registi le impongono indicazioni precise?
«Sono più tranquillo se il regista mi lascia fare ed evita di darmi consigli. Mi è anche capitato di registrare tutta la musica prima delle riprese: lo feci per C’era una volta in America. Volevo che Sergio Leone s’innamorasse subito della colonna sonora, e lui la usò sul set, mentre girava. A volte invece è il regista a scegliere tra cose diverse. In una fuga c’è un tema e un controsoggetto, che in Metti una sera a cena era molto espressivo. Lo stavo scartando, ma prima di buttarlo lo feci ascoltare a Patroni Griffi, il quale mi disse: Ennio, sei matto, è bellissimo. Spesso non mi so giudicare. Altre volte scrivo un pezzo arduo ma tenendo pronta un’alternativa se mi viene contestato: per Baaria proposi a Tornatore una musica piena di accorgimenti contemporanei. Se non l’avesse accettata avevo una sostituzione. Poi quel brano difficile andò nei titoli di coda».
Prende molti rischi musicali?
«Soprattutto con registi che sono al primo film. Un debuttante subisce di più le decisioni di un compositore affermato».
Ci racconti un esempio.
«Non era facile la musica de I pugni in tasca, primo lungometraggio di Marco Bellocchio, dove una voce gira intorno a un accompagnamento astratto e dissonante. Feci anche i primi tre film di Dario Argento, finché il padre, il produttore Salvatore Argento, si lamentò: tutte le musiche dei film di mio figlio sono uguali! Invece erano semplicemente dissonanti, senza melodie. E aggiungo che con Argento ho fatto esperimenti notevoli».
Quali?
«Di fronte alla sua voglia di sangue, ho usato piccole strutture di strumenti e musica pervasa da una sorta di dolcezza. La vittima o l’assassino di solito hanno subìto violenze nell’infanzia. Un semplice tema di sapore infantile può evocare quest’idea contrapponendola a musiche stridenti».
Lei musicò anche l’horror fantascientifico di John Carpenter “La cosa”.
«Carpenter me lo mostrò in cassetta per poi andarsene senza mai dirmi una parola. Scrissi per lui pezzi che ricordavano le situazioni del film, tipo i mostri che uscivano dallo stomaco, e un brano era la trascrizione elettronica di una mia musica astratta. La tensione di una nota sosteneva la difficoltà dissonante del pezzo».
Con Sergio Leone come lavorava?
«Avevamo fatto le elementari insieme. La prima volta che entrò a casa mia, chiedendomi la colonna sonora di Per un pugno di dollari,glielo ricordai ma non ci credeva. Allora gli mostrai la foto della terza elementare. Nacque subito un feeling. Tendevo a fargli sentire una monodia con accompagnamento, armonie essenziali. Di solito ci intendevamo, però poteva essere insicuro. Ascoltava i temi al pianoforte e poi, dopo una settimana, tornava con la moglie o altri familiari per risentirli. Voleva anche i temi scartati dai registi con cui avevo lavorato. Non hanno capito niente, diceva, li prendo io».
La colonna sonora serve a intensificare quel che c’è? Oppure aggiunge ciò che non si vede?
«Il regista può chiedermi: accentua la fuga dei cavalli. E io scrivo un pezzo dinamico. O può domandarmi di sottolineare aspetti differenti della storia. Per esempio, se c’è molta violenza, posso alleggerirla con la musica. Oppure, di fronte a un eccesso di dinamismo, mi comporto musicalmente in modo statico. Ma in generale sono persuaso che si debba far sentire allo spettatore il non visibile: quel che sta oltre o dietro un dialogo o una circostanza, o quanto è avvenuto prima. Insomma l’anima segreta della storia».
Lei compone anche musica assoluta: sinfonica, da camera, corale. Rammenta quando la musica “colta” disprezzava quella cosiddetta applicata?
«È uno snobismo tremendo e purtroppo circola ancora. Siamo figli dell’estetica di Croce, secondo cui la musica non può servire le altre arti. Eppure, se tra due secoli vorranno comprendere chi siamo, sa come lo scopriranno? Grazie alle musiche dei film».