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 2016  febbraio 14 Domenica calendario

«La verità è che non sappiamo difenderci dall’Isis». Parla Marc Trévidic, ex capo del pool anti-terrorismo di Parigi

«In Francia ci saranno altri attentati per una semplice ragione: non sappiamo difenderci». Marc Trévidic è stato per quasi 10 anni il più famoso magistrato dell’antiterrorismo francese. Ha indagato su diversi gruppi islamisti, incrociando per esempio uno dei mentori dei kamikaze dei Bataclan che aveva annunciato – un anno prima dei fatti – di voler colpire una sala da concerti. «Tutti sapevamo, tra magistrati e servizi segreti, che qualcosa di grosso si stava preparando», racconta-Trévidic, 50 anni, che ha appena pubblicato un romanzo, Ahlam, storia d’amore ambientata in Tunisia durante la caduta del regime di Ben Ali. Il debutto letterario del giudice, a lungo protetto da Franck Brinsolaro, l’agente poi ucciso a Charlie Hebdo, è una sorpresa. Come il fatto che da oltre un anno non sia più alla procura antiterrorismo ma agli affari famigliari del tribunale di Lille. Trasferimento coatto che, secondo alcuni, è dovuto al conflitto che ha avuto su alcune inchieste con una parte dei servizi segreti. «Mi dispiace che il mio bagaglio di fonti e conoscenza non venga sfruttato in questo momento. Anche perché so che il peggio deve ancora venire».
Questo è solo l’inizio di un’escalation?
«Dipende da noi: se perdiamo ancora tempo mentre loro a Raqqa o Mosul si organizzano per preparare nuovi attacchi. La risposta a breve termine è militare. Bisogna distruggere le basi di Daesh tra Iraq e Siria. Ma questo non risolverà in assoluto il problema. Dopo il declino di Al Qaeda, attraverso l’intervento militare dell’Occidente, è nato l’Is. E dopo ci sarà un soggetto nuovo. Sul lungo termine l’unica soluzione contro il terrorismo islamico è combatterne l’ideologia».
Ma il lavoro dell’antiterrorismo francese, di cui lei è stato protagonista, non serve a nulla?
«Non dico questo. Ma i mezzi che lo Stato ha messo in campo sono molto inferiori alla minaccia. C’è stata una sottovalutazione dei rischi. Nell’agosto 2015 avevo annunciato in diverse interviste il pericolo di attacchi ampi nel nostro paese eppure il governo non mi ha ascoltato».
È utile prolungare lo stato di emergenza come ha deciso il governo?
«Negli ultimi mesi abbiamo visto che le perquisizioni a catena dello stato di emergenza non hanno dato risultati significativi a livello giudiziario. E d’altra parte gli arresti preventivi non fermano davvero una persona che si sta avvicinando ai gruppi islamisti, anzi possono aggravare la situazione».
In che senso?
«La maggior parte dei giovani radicalizzati fa un percorso a tappe prima di entrare nella jihad. L’ho visto durante le mie inchieste: c’è un momento in cui possono ancora avere un ripensamento, essere recuperati nella nostra società. Non è mettendoli in prigione o agli arresti domiciliari, escludendoli del tutto, che abbandoneranno l’ideologia islamista. A quel punto, anzi, il loro unico obiettivo è andare in Siria o entrare attivamente in un’organizzazione radicale. È su questa sottile linea d’ombra che dobbiamo muoverci”.
E quali sarebbero le misure giuste?
«Dobbiamo avviare programmi di de-radicalizzazione, lavorando sulla psicologia e il reinserimento di queste persone. L’idea che ci proteggeremo solo potenziando la sicurezza è sbagliata. I mezzi non saranno mai sufficienti: il numero dei presunti radicali francesi da sorvegliare è pari se non superiore a quello degli agenti della Dgsi ( Direction générale de la Sécurité intérieure, ndr.)”.
È stato allontanato dall’antiterrorismo perché in conflitto con i servizi segreti?
«L’intelligence dovrebbe essere al servizio della magistratura, non il contrario. Purtroppo è sempre meno così. L’ho sostenuto e forse le mie dichiarazioni non mi hanno procurato molti amici. L’esecutivo vuole controllare i servizi segreti, evitando che i giudici possano intromettersi. Una tendenza che esisteva già quando ero alla procura antiterrorismo e accentuata dalle recenti riforme legislative».