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 2016  febbraio 15 Lunedì calendario

La E rosso chiaro, la I rosso scuro e la A giallo e la X – che è una cornacchia che gracchia – nera. Le lettere secondo Lars Gustafsson: «Ma se non avessi avuto una macchina da scrivere non sarei mai diventato scrittore»


Pubblichiamo uno stralcio di “Le lettere dell’Alfabeto” dello scrittore e poeta svedese Lars Gustafsson, che ha vinto il Premio internazionale Nonino. Traduzione di Carmen Giorgetti Cima
 
 
S e fossi nato cinese… Se fossi nato cinese, molto probabilmente non avrei scritto questo testo. Sarei morto da piccolo in una delle terribili carestie che colpirono quel Paese nei decenni successivi alla mia nascita.
Ma supponiamo che avessi avuto fortuna! In tal caso mi sarei formato in un altro sistema di scrittura, con esigenze totalmente diverse e altre regole. Invece di ventotto caratteri più il segno vuoto – che non va sottovalutato – avrei dovuto imparare migliaia di ideogrammi. (Uno dei dizionari più comuni ne include diecimila). A volte penso a questo alfabeto fonetico occidentale che mi è toccato in sorte, e a come abbia passato innumerevoli ore della mia vita a mescolare, tagliare e sistemare i suoi segni.(...)
Le lettere entrarono nella mia vita in prima elementare, in un abbecedario che i miei compagni di classe sbeffeggiavano selvaggiamente perché la mia mamma l’aveva provvisto di un rivestimento protettivo di vecchia tela cerata a cerchi bianchi e blu. Mentre tutti gli altri erano coperti di carte più o meno attraenti. Questo creò in me una sorta di resistenza, un’avversione per le lettere dell’alfabeto che non ho mai realmente superato. Curiosamente, provo sempre un singolare sollievo quando mi trovo a dover decifrare un testo in greco antico, in cirillico, sì, perfino in ebraico.
CARATTERI
Dietro questi nobili, antichissimi alfabeti non si nasconde nessuna sgradevole collerica maestra elementare. Sono immacolati, come la scrittura musicale così meravigliosamente densa, che va letta contemporaneamente in senso orizzontale e verticale. Non hanno in sé niente di ostile. Dal profondo delle loro forme sorgono immagini arcaiche: la casa che l’ebrea Beit costruisce, la nave Sheen che veleggia con tre alberi, il serpente che si contorce in Lahmed1. Per non parlare delle lettere greche, dove Phi, Pi e il fiero toro Alef sono sempre stati i miei preferiti. E per non dire del grande Omega, questa gaia larva di Geometridae diretta verso un infinito che tuttavia non raggiunge mai.
I caratteri primordiali della mia scuola elementare avevano dei colori. Naturalmente non ricordo più se fossero i colori dell’abbecedario o la mia personale interpretazione intuitiva; la Ö era ovviamente verde, la E rosso chiaro, la I rosso scuro e la A giallo. E questo contagiava i suoni. La cupa U (per esempio in “djuren”– “gli animali” – come si pronuncia nel Västmanland) è verde scuro al limite del crepuscolo novembrino, mentre la U un po’ più chiara (come in “uppställning” – “schieramento”) è verde tenero. La X è una cornacchia che gracchia e come lettera è di conseguenza totalmente nera.
E non basta saper leggere. Bisogna anche saper scrivere. Fino a un paio di anni fa era in corso in Germania un vivace dibattito su come i bambini debbano imparare a scrivere. I Länder del sud, tradizionalmente più conservatori, si attenevano al metodo classico con cui mi ero confrontato io a scuola e che ormai è stato abbandonato sia in Svezia che negli Stati Uniti; ovvero di imparare una scrittura fatta di lettere unite una all’altra, che ci si aspettava evolvesse poi in una calligrafia personale.(...)
Meglio comunque quello della detestabile bella calligrafia dei miei tempi. L’autore di queste righe non ha mai potuto far vanto di chissà quale abilità motoria. I grumi d’inchiostro, che provocavano prevedibili accessi d’ira nella maestra, le penne d’acciaio spigolose che con il trascorrere delle ore penetravano sempre più a fondo nell’indice destro – tutto assumeva la forma di una raffinata tortura. In particolare detestavo la F maiuscola e la S minuscola, che troppo facilmente rischiavano di essere scritte all’incontrario. La seconda mi provoca tuttora una sorta di panico suppletivo quando devo scrivere l’ormai ampiamente utilizzato segno @. La penna è costretta a ruotare almeno tre volte prima che io mi decida a tracciare la parte interna di questo segno. Che enorme sollievo fu avere la mia prima macchina da scrivere! Se fossi stato condannato a scrivere a mano per tutta la vita, di sicuro non sarei mai diventato scrittore. La macchina da scrivere, quest’amica e liberatrice dell’essere umano (almeno ottanta volumi ho scritto con due indici e il pollice destro), si dimostrò essere solo il primo passo su un cammino di liberazione. I meravigliosi programmi di scrittura elettronici!
La libertà di entrare immediatamente in qualsiasi punto si voglia di un testo, che dunque in linea teorica è la libertà di scrivere all’inizio, a metà e alla fine durante la stessa seduta di lavoro, mi ha sempre fatto pensare al coro dei prigionieri nel Fidelio di Beethoven, quando risalgono alla luce del giorno dalla loro prigione sotterranea.