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 2016  febbraio 15 Lunedì calendario

Ermanno Olmi racconta il cardinale Martini

Cent’anni fa, sull’altipiano di Asiago, regnava la guerra, la Grande guerra. Poi tornarono i prati... Anche Ermanno Olmi ha sconfitto l’inverno, ha dissolto il Male. Celebra in questi giorni, in queste settimane, la vittoria ritrovando il mestiere che è così suo, il cinema. Un rabdomante, tra immagini e parole mai vacue, mai arrugginite, mai slabbrate, che nelle stagioni riaffiorano, nell’uomo riconoscendo la bussola.
In chi ha salutato «l’uomo» nel nuovo lavoro?
«In Carlo Maria Martini. Un omaggio pronto in autunno. Non so ancora se destinato alle sale o se riservato alla televisione. Una sequela di istanti profetici o forse solo umanissimi, attinti negli archivi dell’Istituto Luce, Corredati di interni ed esterni che ho girato nella casa torinese del Cardinale, della sorella, che ne custodisce la memoria, come a Milano e a Gallarate, il luogo della morte».
Ha conosciuto Martini?
«Un mese dopo l’arrivo sulla cattedra di Ambrogio. Mi telefonò da Roma Emanuele Milano, chiedendomi di intervistarlo. Mi presentai così a Martini: “Io sono un credente, non un cattolico, sono un cristiano che aspira all’imitazione di Cristo. Il cattolicesimo svaluta la fede, riducendola a un fatto burocratico. Mentre è tormento, curiosità”. Ci intendemmo subito».
Il tema, un tema, di quella conversazione?
«La confessione. Dilagava allora nell’ambiente cattolico la presunzione di assolversi da soli».
Che cosa la colpì di Martini?
«Ascoltava, una disposizione così rara. Di lì a tre anni mi ammalai, venne a trovarmi, diventammo amici. Ritorno a lui ora, nel tempo di una diversa prova, la Bestia, manifestatasi nel 2014, una volta terminato Torneranno i prati. Posso dire di averle messo la cavezza, va estinguendosi».
L’intervista, l’amicizia. E poi?
«E poi Martini mi invitò a partecipare alla “Cattedra dei non credenti”. Martini secondo cui in ogni uomo c’è un credente e un non credente. Come non specchiarsi in ciò? Che cosa dissi dalla “cattedra”? Riflettei sulla differenza tra il quadrato e il cubo. Il quadrato è unicamente superficie. Il cubo è il contenitore di un mistero, ovvero l’uomo».
Come s’inizia il film?
«Una voce off interpreta un pensiero di Carlo Maria Martini: “Sapete, sono uno di voi”. Ma leverò “sapete”, nel titolo. Sono uno di voi, semplicemente, magnificamente, ritrae il Cardinale».
E come lo conclude?
«Ho chiaro, chiarissimo, l’estremo quadro. Esemplifica la sorte che tocca l’uomo al passo d’addio. Una sensazione che mi è successo di provare. L’intera vita ripercorsa in un soffio. Non c’è più tempo per le attenuanti, le giustificazioni, le vie di fuga...».
Che cosa di Martini risalta nel film?
«Martini nella stagione eversiva, della guerra civile, del terrorismo, i terroristi a che lui consegneranno le armi, non allo Stato. Se ne fa carico come vescovo e come cittadino, vescovo e laico. Martini che ristabilisce il dialogo tra credenti e non credenti, invitandoli a confidarsi reciprocamente: io confido in te, tu confidi in me. Martini che esce dalla Chiesa come luogo sacro e va nel mondo, mai giudicando: la secolarizzazione che discende per li rami, l’Incarnazione, no? La sua giornata era, fu, una celebrazione della vita e della morte e della resurrezione, la vicenda che è di tutti».
Frequentando Martini, e ora raccontandolo, ne ha scoperto il segreto?
«La consapevolezza di godere di un grande beneficio: l’essere, l’esistere. Fonte di un radioso stupore».
Martini spettatore di Olmi...
«Lo colpì Il mestiere delle armi. In particolare l’agonia di Giovanni, la sua durata: quaranta minuti... Gli sortì un fanciullesco “oh!”...».
Dall’Albero degli zoccoli, un mondo che naturalmente riconduce a Roncalli, a Sono uno di voi. Roncalli e Martini...
«Che cosa li accomuna? Sono rimasti fedeli, ma non legati, alla loro humus originaria. Contadino l’uno, borghese l’altro: comunicavano perché erano autentici».
Roncalli contadino: potrebbe essere un prete dell’Albero.
«Era, Roncalli, la gioia contadina che non è la preoccupazione di appartenere a uno stile. La gioia è un sentimento che è in sé stile».
Meditando sullaLettera ai Romani, Martini osservò: «Occorre che tutto alla fine giunga a proclamare la risurrezione, che è il tema centrale del Nuovo Testamento».
«Che cos’è per me la resurrezione? È “vedere” e non oscurare il divino dentro di noi. Non una speranza, ma una aspettativa di certezza».
In questa casa vicina alla dimora che fu di Mario Rigoni Stern non è mai arrivata una telefonata dal Quirinale che annunciasse la nomina a senatore a vita?
«No. E, eventualmente, come Montanelli, non avrei accettato».
Accettò, tra gli artisti, Eduardo.
«Eduardo, l’incapacità di distinguere tra palcoscenico e vita, tra osteria e strada... Ovvero la commedia dell’arte, nei secoli dei secoli».
Il regista del secondo Novecento che predilige?
«Roberto Rossellini, non v’è dubbio. Ci ha sollecitato a scendere dalla torre d’avorio, a camminare insieme con l’uomo, a sceglierlo, a scrutarne la storia, a cogliere, in questa e in quella storia, di questa o quella storia, la necessità».
E Fellini?
«“Ermannino – mi salutò a Milano, 1958, dopo aver assistito a Il tempo si è fermato -, non sarei mai stato in grado di girare un simile film”. Mi accoglieva in tal modo nella sua cerchia. In seguito onorandomi di un sogno trasmutato in un disegno, i quattro fratellini che salvarono l’universo dalla tragedia atomica. Già: chi ha detto che tutto è finito, che tutto dovrebbe finire?».