Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  febbraio 15 Lunedì calendario

Sulla scomunica ai comunisti

 proposito della scomunica ai comunisti, mi spiega perché lei, come tanti altri non seguaci della Chiesa cattolica, vuole insegnarle a fare il suo mestiere?
 
Stefano Nitoglia

 
Caro Nitoglia, 
U n cattolico adulto, come Romano Prodi definì se stesso, le risponderebbe che la Chiesa ha il diritto di essere ciecamente obbedita soltanto quando il suo capo parla ex cathedra; e aggiungerebbe che in ogni altra circostanza il fedele ha il diritto di alzare la sua voce e manifestare, con le dovute forme, il suo dissenso. Un osservatore laico sarebbe per molti aspetti ancora più liberale e riconoscerebbe alla Chiesa il diritto di decidere quali regole applicare ai suoi seguaci, anche quando possono apparire datate e anacronistiche. Ma non potrebbe accettare senza reagire quando la Chiesa interviene in materie che rientrano fra le competenze e le responsabilità dello Stato. 
Il caso della scomunica ai comunisti è per l’appunto in questa categoria. Ricordo per i lettori che il decreto emanato dalla Congregazione del Santo Uffizio del 1° luglio del 1949 affermava: «a) non essere mai lecito iscriversi ai partiti comunisti o dar loro appoggio, poiché il comunismo è materialista e quindi anticristiano; 
b) che è vietato diffondere libri o giornali, i quali sostengono la dottrina e prassi del comunismo materialista ed ateo; 
c) che i fedeli, i quali compiono con piena consapevolezza gli atti su proibiti, non possono ricevere i Sacramenti; 
d) inoltre che i battezzati, i quali professano, difendono o propagandano consapevolmente la dottrina o prassi comunista, incorrono ipso facto nella scomunica riservata in modo speciale alla Santa Sede, in quanto apostati dalla Fede cattolica (l’apostasia è il passaggio dalla religione cristiana ad un’altra totalmente diversa – nel caso il materialismo ateo – e perciò più grave dell’eresia e scisma, quale sarebbe il passare dal Cattolicesimo al Protestantesimo». 
Se questi divieti fossero stati applicati, più di sei milioni di cittadini italiani (i voti comunisti nelle elezioni del 1953 furono 6.121.922) sarebbero stati scomunicati e l’intera società cattolica italiana sarebbe stata implicitamente invitata a considerare la loro partecipazione al voto come nulla e non avvenuta. Se questo fosse accaduto, avremmo avuto il diritto di considerarci ancora un Paese democratico? Non era necessario essere comunisti per considerare quel decreto una minaccia all’unità nazionale. In quegli anni il comunismo, per le sue teorie e le sue affiliazioni internazionali, rappresentava certamente un rischio e una minaccia. Ma occorreva combatterlo nelle urne e in Parlamento. Aggiungo, caro Nitoglia, che nell’Italia di allora il decreto del 1949 avrebbe avuto l’effetto, in molti casi, di spezzare famiglie e amicizie. La Chiesa se ne accorse ed ebbe il grande merito di seppellire il decreto sotto una montagna di dubbi e incertezze. Di questo anche un laico deve esserle grato.