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 2016  febbraio 15 Lunedì calendario

Breve storia della schiavitù

A Napoli nel 1661 c’erano dodicimila schiavi: un cronista annotò che «ogni persona d’ogni stato, grado e condizione ne comprava». A Livorno ce ne furono moltissimi e nel 1686 fu tolto agli ebrei il «privilegio» di possedere schiavi musulmani di età inferiore ai sedici anni, nel timore che fosse loro impedito di convertirsi al cristianesimo. A Monaco di Baviera nel 1608 la moglie di Massimiliano I aveva una schiava turca a suo personale servizio. La regina Cristina di Svezia nel testamento del 1689 lasciava una dote alla sua «schiavetta» Cristina Alessandra. In quegli stessi anni il cardinale d’Aragona aveva un moro di Tlemcen come servitore. Uno schiavo, all’inizio del Cinquecento, lo aveva avuto anche Papa Leone X (Giovanni de’ Medici): si chiamava al-Hasan al-Wazzan, era un musulmano spagnolo. Viaggiatore al servizio del sultano di Fez, catturato dai pirati, consegnato alle prigioni di Roma, si fece cristiano e prese i due nomi del pontefice, Giovanni Leone. A lui è dedicato l’affascinante libro di Natalie Zemon Davis, La doppia vita di Leone l’Africano (Laterza), dal quale si trae conferma del fatto che la schiavitù all’epoca non era un problema: molto fu rimproverato al Papa che ebbe il primo scontro con Martin Lutero («sfacciato nepotismo, sfarzosa vita di corte, esosità insaziabile, smisurata prodigalità, politica tortuosa e incerta, irresponsabilità», è l’elenco dei rilievi fatto da Josef Gelmi nel libro I Papi, edito da Rizzoli), ma nessuno imputò a Leone X di possedere un servo «di sua proprietà». 
Avere schiavi fu a lungo considerato dalla cultura europea del tutto normale e sono lì a testimoniarlo innumer evoli opere d’arte: dalle Nozze di Cana del Veronese a moltissimi altri quadri in cui schiavi e schiave di colore figurano come eleganti paggi e devoti servitori di famiglie aristocratiche. E, per restare ai Papi, non possiamo dimenticare, tra le sculture, i due schiavi di Michelangelo per la tomba di Giulio II, che dalla fine del Settecento sono esposti al Louvre. 
È questo uno dei punti di partenza dell’assai interessante libro di Salvatore Bono Schiavi. Una storia mediterranea ( XVI-XIX secolo), appena dato alle stampe dal Mulino. Libro che sottolinea le diversità tra lo schiavismo atlantico (Stati Uniti d’America, ma non solo) e quello mediterraneo. La differenza più importante sta nel carattere «reciproco» della schiavitù mediterranea. La guerra corsara, la cattura, la detenzione, l’utilizzo in vario modo di schiavi e schiave – come avevano efficacemente messo in luce Marco Lenci in Corsari. Guerra, schiavi, rinnegati nel Mediterraneo (Carocci) e Giovanna Fiume in Schiavitù mediterranee. Corsari, rinnegati e santi di età moderna (Bruno Mondadori) – «sono stati parimenti esercitati da una parte e dall’altra in Europa e nei Paesi islamici, sia quelli arabi che la Turchia». 
A noi viene immediato ricordare i «nostri» schiavi, come, appunto, Leone l’Africano. Ma tendiamo a dimenticare quei nostri antenati europei che, come Miguel de Cervantes, furono tratti in schiavitù: l’autore del Don Chisciotte, mentre sulla galea Sol era in viaggio da Napoli alla Spagna, fu fatto prigioniero dal pascià Hasan Veneziano, che lo tenne in cattività dal 1575 al 1580, quando per lui fu pagato un riscatto dalle missioni dei trinitari fondate da San Giovanni de Matha. E Cervantes può considerarsi fortunato a paragone di quelli che ebbero i destini descritti da Oriana Fallaci nel suo libro La rabbia e l’orgoglio (Rizzoli), allorché la scrittrice si diffuse sui «crimini che fino all’alba del Milleottocento i musulmani hanno commesso lungo le coste della Toscana e nel mare Tirreno»: «Mi rapivano i nonni, gli mettevano le catene ai piedi e ai polsi e al collo, li portavano ad Algeri o a Tunisi o in Turchia, li vendevano nei bazar, li tenevano schiavi vita natural durante, gli tagliavano la gola ogni volta che tentavano di fuggire». 
Ma la maggior parte di quelli che venivano catturati non subivano quel tipo di sorte. O quanto meno non la subivano per tutta la vita: dopo un periodo più o meno lungo si trovavano, come appunto Cervantes, in condizione di riacquistare la libertà. E qui va detto che l’altra caratteristica fondamentale del sistema mediterraneo – come hanno scritto Olivier Pétré-Grenouilleau in La tratta degli schiavi (Il Mulino) e Patrizia Delpiano in La schiavitù moderna (Laterza) – fu la «reversibilità», la «possibilità di recupero dello status di libertà, con il ritorno in patria o con la definitiva integrazione dall’altra parte». Le vie del ritorno alla condizione di persone libere erano molteplici e, osserva Bono, non tutte sono state ancora ben indagate. Per gli europei il riscatto sembra prevalente rispetto ad altre pratiche, sicché c’è chi ritiene opportuno parlare di captivi, poi «redenti», e non di schiavi. Le nostre società, perciò, a differenza di quella statunitense, non possono essere definite, secondo l’autore, «schiaviste», ma al massimo società «con schiavi». Reciprocità e reversibilità fanno sì che la schiavitù mediterranea appaia «fondamentalmente diversa da qu asi ogni altra». Anche se, precisa Bono, «per gli europei caduti in schiavitù il ritorno in patria, contrariamente a ciò che i più ritengono, costituiva la fortunata sorte di una minoranza e assai esiguo era il numero di turchi, maghrebini, ebrei e abitanti vari di Paesi delle altre rive mediterranee che riuscivano a rivedere la terra natale». 
Per gran parte degli schiavi in Europa il destino finale è stato quello di essere integrati nelle società di adozione, «diciamo così, attraverso la conversione religiosa e la manumissione, la concessione cioè della libertà per volontà del padrone», perlopiù a seguito di un «accordo con l’interessato». Per gli europei catturati dai musulmani è stata invece «relativamente più frequente» la possibilità di essere riscattati, tanto più dalla fine del Cinquecento in poi. Per gli uni e per gli altri vi erano tuttavia anche altre possibilità di ritorno alla libertà: «lo scambio, la liberazione in un evento bellico, la fuga». Ciò che rende la «nostra» schiavitù assai diversa da quella «atlantica» che negli stessi secoli (XVI-XIX), attraverso la tratta dalle coste del continente africano, condusse milioni di neri nel Nuovo Mondo da cui era pressoché impossibile tornare indietro. Nuovo Mondo «al cui sviluppo economico essi contribuirono in modo essenziale, sicché i loro discendenti costituiscono una componente altrettanto essenziale della realtà di questi Paesi». È per questo che alcuni studiosi statunitensi hanno voluto suggerire una «analogia all’inverso» fra «white masters» e «african slaves» americani, da un lato, e dall’altro tra «white slaves» e «african o muslim masters» mediterranei. Una comparazione che a Bono appare però «del tutto infondata» per le radicali differenze che caratterizzano ogni aspetto delle due schiavitù, atlantica e mediterranea. 
Ad ogni modo esiste perfino un caso di americani bianchi ridotti in schiavitù: nel 1793 oltre un centinaio di cittadini degli Stati Uniti si trovavano schiavi ad Algeri; due anni dopo si giunse a «un accordo di pace, grazie alla corresponsione da parte americana di un ingente ammontare (intorno a un milione di dollari) e all’impegno ad un piccolo tributo annuale» che restituì a quei cittadini d’oltreoceano la libertà perduta. 
Questa netta distinzione tra le due schiavitù non deve, però, impedirci di cogliere un punto fondamentale, cioè che la tipologia dello schiavismo mediterraneo ha costituito il «precedente immediato» di quella atlantica. Nel nostro mondo infatti «il passaggio dalla schiavitù medievale a quella moderna si delinea con il primo arrivo di schiavi neri a Lisbona nel 1444, seguito da altri sempre più consistenti contingenti». Il Marocco fu il primo Paese del Nord Africa ad avere più schiavi neri che europei. Poi la tendenza si diffuse anche in Europa, dove si optò per i neri perché venivano giudicati migliori dei turchi o maghrebini. 
Nella sua Plaza universal de todas las ciencias (1615) Cristobal Suarez de Figueroa scriveva: «Gli schiavi o sono turchi o barbareschi o negri: i due primi generi risultano di solito infedeli, mal intenzionati, ladri, ubriaconi, pieni di mille sensualità e autori di mille delitti… I negri sono di miglior literatura, più facili da trattare e, una volta addestrati, di buon rendimento». 
Più complesso è il discorso sul rapporto tra schiavitù e religione. Bono accusa la storiografia di aver utilizzato ampiamente e di utilizzare tuttora i termini «cristiano» e «musulmano» (con riferimento sia ai corsari sia agli schiavi del mondo mediterraneo) al punto da indurre, anche se non intenzionalmente, «il convincimento che la diversità tra le due fedi sia stata all’origine e al fondamento del continuo stato di tensione e di guerriglia» e della conseguente cattura di schiavi. Invece, il contrasto religioso ha certamente contato nei sentimenti e nelle valutazioni di molti, a livello sia di decisioni politico-militari sia del fervore di partecipazione delle popolazioni, ma non si può ricondurre quello di cui stiamo parlando allo spirito di crociata o di jihad. Non si può e non si deve. La guerra corsara risaliva a una tradizione mediterranea antica d’oltre due millenni, dai tempi cioè in cui non esistevano né cristiani né musulmani. Dopodiché i fronti contrapposti non si dividevano sempre e in ogni dove secondo le appartenenze religiose. 
Le condizioni dei cristiani nei Paesi arabi spesso furono tutt’altro che drammatiche. Il viaggiatore inglese John Braithwaite, che nel 1727-28 aveva accompagnato in Marocco l’inviato inglese John Russel, si disse molto colpito dalla libertà di culto di cui godevano gli schiavi cristiani e sottolineò come molti vivessero «meglio di quanto non avrebbero potuto aspettarsi nel loro Paese». L’americano William Shaler, console generale degli Stati Uniti ad Algeri dal 1815 al 1824, riferì che la condizione degli schiavi non era «peggiore di quella dei prigionieri di guerra in molti Paesi cristiani civilizzati». Va aggiunto che gli «schiavi cristiani», una volta tornati nei Paesi d’origine dopo un periodo di cattività presso i musulmani, dovevano preoccuparsi d’essere sospettati di avere in qualche misura ceduto e comunque di essere stati «contaminati» dall’ambiente islamico. Sicché in molti casi i cristiani si trovarono ad aver più paura dei loro correligionari che degli «infedeli». 
Va detto infine che nella guerra corsara e nella schiavitù furono coinvolti anche attori e vittime che non appartenevano né all’una né all’altra fede. Che gli uni e gli altri presero e tennero come schiavi anche fedeli della loro stessa religione. E che, persino quando si convertivano, molti schiavi rimasero tali. Ciò che rendeva schiavi, nel caso di cattura, era «l’appartenenza ad un campo o all’altro, non la fede in una rivelazione o nell’altra». A Bono sembra dunque doveroso «non rendere esclusivo e insistente il riferimento a cristiani e musulmani». Qualcuno, una volta libero, scelse addirittura di restare o tornare nella terra che aveva conosciuto in catene. Il militare turco Kara Musa, a metà Cinquecento, quando rivide la terra natale dopo trent’anni di schiavitù in Polonia, non vi si ritrovò e scelse di tornare nel «Paese d’adozione». Lo stesso accadde all’intellettuale francese Thomas d’Arcos che, tornato da Algeri dove, a partire dal 1625, era stato detenuto per un qualche tempo, volle nel 1628 trasferirsi a Tunisi e farsi musulmano. Percorsi che, come è evidente, sarebbero stati inconcepibili nel contesto della schiavitù atlantica.