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 2016  febbraio 15 Lunedì calendario

Intanto gli italiani riparano la diga di Mosul, per salvare Baghdad dal Tigri

Un lavoro davvero complesso attende i tecnici italiani che dovrebbero iniziare presto le attività di riparazione della diga di Mosul. Lo evidenzia un nuovo studio americano. 
Prendete il fatto, già preoccupante in sé, che lo sbarramento generante il bacino idrico più importante dell’Iraq poggia su una miscela instabile di strati argillosi e gesso. Una deficienza strutturale gravissima già nota al momento della fine del suo riempimento nel 1985. Ma aggiungete la mancanza di manutenzione regolare a causa della guerra e delle tensioni che dominano nella regione. E, dulcis in fundo, comprendete l’eventualità per nulla utopica che Isis cerchi di attaccarla per fermare nel caos le offensive alleate volte a liberare Mosul pianificate nei prossimi mesi. 
Capirete allora che il nuovo allarme lanciato dal corpo degli ingegneri dell’esercito americano non può non destare preoccupazioni, oltre all’Iraq, anche tra i responsabili italiani, i quali, secondo gli accordi in via di definizione proprio in questi giorni tra Roma e Bagdad, dovrebbero iniziare ad operare in primavera. «Se dovesse crollare, un’onda alta oltre 55 metri sconvolgerebbe il bacino del Tigri. Mosul sarebbe investita meno di quattro ore dopo. Poi sarebbero inondate le città e i centri urbani verso Sud. Bagdad sarebbe raggiunta due giorni dopo. Mezzo milione di persone potrebbero perdere la vita», segnala il rapporto Usa reso noto lo scorso 30 gennaio. Con un’aggiunta fondata sulle rilevazioni più recenti: «I rischi per la struttura della diga sono significativamente più alti di quanto si ritenesse in precedenza». Si accenna addirittura ad un possibile effetto «cento volte più devastante dell’uragano Katrina». 
Va considerato che il nuovo documento ricorda elementi già sostanzialmente noti. Le debolezze della diga, costruita ai tempi della dittatura di Saddam Hussein da un consorzio italo-tedesco, sono tristemente celebri. Se ne parlava anche sui media internazionali al momento dell’invasione americana nella primavera del 2003. Tanto che i commando Usa arrivarono veloci sul luogo nel timore che i baathisti potessero minarla. La questione centrale sta nel fatto che la mistura di argilla e gesso su cui poggia si scioglie con velocità sorprendente quanto entra in contatto diretto con l’acqua. Ciò comporta che le cavità in continua formazione sotto lo sbarramento vanno periodicamente riempite con iniezioni costose e complesse di malta mista a cemento a presa rapida e materiali rassodanti. Gli ingegneri americani stimano che ne siano state iniettate sino ad ora oltre 100 mila tonnellate. 
Le «cure» si sono però interrotte per quasi due mesi nell’estate del 2014, quando Isis si impadronì brevemente dell’impianto prima di essere scacciato dai peshmerga curdi con l’aiuto dell’aviazione e dei corpi speciali americani. 
Da allora però gli interventi di rinforzo si sono fatti più radi. Risultato secondo il rapporto: «La diga rivela livelli senza precedenti di cavità non trattate». Non aiuta inoltre il fatto che il governo di Bagdad abbia cercato di tagliare l’afflusso dell’acqua a Mosul, solo una quarantina di chilometri più a Sud, dove Isis ha stabilito i centri amministrativi e militari per il controllo delle sue province in Iraq. La conseguenza è che il livello del bacino si è alzato, esercitando una pressione più intensa sullo sbarramento. Sono poi stati gli avvertimenti Usa a convincere le autorità irachene a riaprire le paratie. 
Tuttavia i responsabili del governo a Bagdad tendono in genere a minimizzare. 
Dopo i primi incontri con la Trevi, la compagnia italiana che ha vinto l’appalto per i lavori, lo stesso ministro delle Risorse idriche, Mohsin al Shammari, aveva ripetuto che c’è solo «una possibilità su mille» che lo sbarramento possa subire un drammatico cedimento strutturale.