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 2016  febbraio 15 Lunedì calendario

Simone Zaza, l’attaccante mai banale

Simone Zaza è quel tipo che sul braccio ha tatuata la faccia di sua mamma (e Topolino) e nell’anima una serie di tumulti che a volte sono scintille, altre tempeste, altre ancora quiete oppure arcobaleni. Dipende. «Sono fatto così. Giovane, e con ampi margini di miglioramento», racconta lui nella versione migliore di se stesso, quella nella quale l’incoscienza si sposa con il talento e diventa decisiva imprevedibilità. «Ho consapevolezza di quello che ho fatto, forse è il gol scudetto. Ma cerchiamo di volare bassi». È un tipo, questo attaccante che tra campionato e coppe segna una volta ogni 78’, cui stanno provando a insegnare che anche la banalità può essere un valore da coltivare (lui ancora non ci sente, da quell’orecchio) e che bene o male continua a salire gradini con la forza delle sue contraddizioni. È uno capace di farsi espellere in maniera insensata oppure di inventarsi dal nulla il gol dell’anno, di reagire istericamente se gli parte l’embolo o di festeggiare la rete della vita accennando appena a un sorriso, ma senza quella rabbia addosso che lo farebbe somigliare a Balotelli. «Non è che non volessi esultare, è che cercavo di mandare un bacio in tribuna a mamma e papà. Poi mi sono saltati tutti addosso e non ho più avuto modo. Avrei voluto festeggiare soprattutto con Morata, perché io e Alvaro siamo sempre assieme, siamo fratelli, non ci sentiamo concorrenti. Quando l’ho sostituito mi ha detto che avrei segnato, questi siamo». Simone Zaza, l’unico calciatore lucano famoso assieme al campione del mondo Franco Selvaggi detto Spadino, è uno di quei tipi per cui Allegri va matto, perché gente così l’allenatore non cerca mai di raddrizzarla, di intrupparla: gli piace l’irrazionalità, anche se deve essere sottoposta a un minimo di educazione. E Zaza è quello che è anche perché non hanno provato a cambiarlo. «Però so che devo limare i miei difetti. Ma sono giovane, non sono un killer: la mia esuberanza rappresenta i due lati della stessa medagalia. È solo voglia di dimostrare qualcosa, solo che a volte la esprimo nel modo giusto e altre in quello sbagliato. Però in questi mesi alla Juve ho preso consapevolezza dei miei mezzi, sono migliorato nelle scelte di gioco, nei movimenti, sono più convinto di me e questo mi fa ben sperare, perché adesso so che ho ampli margini di miglioramento». Fa ben sperare anche per le sorti della Nazionale, perché non bisogna scordare che Zaza è stato il primo centravanti azzurro di Conte e il primo a segnare un gol ufficiale (alla Norvegia) per l’Italia di Conte, che all’inizio mise lui assieme a Immobile, il quale definì se stesso e il suo collega «l’attacco ignorante». Sono due che vivono di istinto, anche di genuinità e a volte di ingenuità, di slanci e pure di gigantesche sciocchezze. «Sì, capita. Però non sono stato il primo giocatore della storia del calcio a farsi espellere, né sarò l’ultimo. Ho chiesto scusa, è finita lì». I compagni gli vogliono bene, sanno che una quota di irrazionalità è necessaria. D’altronde Zaza dai suoi sbagli un poco ha imparato: l’Atalanta lo crebbe ma poi lo scaricò perché non ne poteva più della sua infiammabilità e il suo primo campionato da professionista vero, alla Juve Stabia, andò a rotoli perché litigava di continuo con l’allenatore Braglia. Ma Marotta e Paratici non lo hanno mai perso di vista: lo portarono prima alla Samp e poi alla Juve, e l’estate scorsa se lo sono ripresi dal Sassuolo. «Sono stato fortunato, ho perso il primo treno ma ho preso il secondo. Per tanti ragazzi non me passa nemmeno uno».