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 2016  febbraio 15 Lunedì calendario

Ricordare il compagno Gobetti

Il “signor p.t.”, scritto con la minuscola. Forse non c’era nessuna malizia, ma per il diciottenne Gobetti quel leader così agguerrito era una semplice iniziale. Palmiro Togliatti l’aveva insultato pubblicamente, dandogli del «parassita della cultura», «ragazzo di ingegno», certo, ma atteggiato «a predicatore del rinnovamento morale del mondo». E lui aveva scelto di rispondergli pacatamente, perché cosa potrà interessare ai lettori che «io non sono sciocco come dice e lui così serio come crede»? Al principio i rapporti non furono facili, né sarebbe potuto andare diversamente. Schieratisu fronti diversi, marxista e liberale. E diversi quasi in tutto, tranne che in quel tratto di «cinismo misto a inquietudine» che Piero vedeva nell’avversario e anche in se stesso. In pochi anni le cose si sarebbero messe a posto. E le lettere del 1925 uscite oggi per la prima volta dal Fondo Gobetti – e di imminente pubblicazione sulla rivistaCritica Liberale di Enzo Marzo con una documentata nota di Pietro Polito – raccontano un’altra storia. Non un’amicizia ma un rapporto fondato sul reciproco rispetto, nutrito anche dalla collaborazione con Antonio Gramsci che nel secondo dopoguerra avrebbe ingenerato molti equivoci.Ma fermiamoci un momento allo scambio epistolare del 1925, Mussolini ormai dittatore dal volto brutale. Gobetti ha già fondato tre riviste e scritto migliaia di pagine ma soprattutto da due anni dirige una casa editrice il cui logo è una scelta di campo: “Che ho a che fare io con gli schiavi?”. Un’opposizione tenace al fascismo pagata sulla propria pelle, tra l’arresto e le aggressioni di squadracce nere che lo lasciano ogni volta squassato. È questo l’editore ribelle a cui si rivolge Togliatti nel marzo del ’25: il tono è molto diverso, lontano dagli accenti di superiorità morale esibiti alcuni anni prima dalle pagine dell’Ordine Nuovo. Non ossequioso, ma rispettoso e anche un tantino implorante. Manca solo un anno alla morte di Gobetti – proprio oggi cade il novantesimo anniversario – e il capo comunista gli chiede di dare alle stampe un rapporto inglese sulla nuova Russia. Proposta accolta? Nel catalogo non ve n’è traccia. Ma si capisce tra le righe che il pourparler è andato avanti, con un soggiorno a Roma dell’editore torinese e un incontro mancato nel suo albergo. Nessuno dei due avrebbe cambiato idea sull’altro, mantenendosi saldi su sponde ideali differenti. Almeno fino alla scomparsa di Gobetti, morto a Parigi non ancora venticinquenne.Dopo sarebbe stato diverso. Nel lungo dopoguerra al “rivoluzionario liberale” sarebbe toccato in sorte quel che più o meno è accaduto ad altri antifascisti stroncati dal regime e dalla guerra. Nessuno come Togliatti è stato capace di annettersi arbitrariamente destini e tradizioni lontani dalla propria. Bastò una formula – “compagno di viaggio” – e fu sua un’altra icona della tradizione azionista e liberaldemocratica. E a nulla sarebbero servite le proteste della famiglia liberale, pronta a sbandierare la professione di anticomunismo («Anticomunista perché anti-astrattista», scrive Gobetti in una lettera a Santino Caramella riferendosi alle idee astrattamente ideologiche) e il severo giudizio sulla «fallimentare esperienza marxista in Russia». E lo stesso Centro Studi Gobetti – ricorda ora Enzo Marzo – ci ha messo molto tempo prima di rendere pubbliche le carte sui rapporti con il capo comunista proprio per evitare schiacciamenti e sovrapposizioni.Ha un senso oggi ricordare queste storie? Certo restituiscono il destino accidentato dell’altra sinistra, quella liberale laica e azionista, che ha sempre faticato nel farsi largo tra le due grandi chiese del Novecento, la comunista e la cattolica. E in anni recenti è stata bersaglio polemico di uno pseudoliberalismo di rito berlusconiamo, allergico al richiamo etico gobettiano tanto da volerlo espungere dal Pantheon dei liberali certificati. Oggi Gobetti non divide più né crea baruffa, perché è passato il tempo delle grandi scelte ideali, le diverse culture politiche ormai confluite in un indistinto neutro e incolore sul piano teorico e identitario. Però quella di Gobetti è tra le icone antifasciste che più resiste al passare del tempo, forse perché eternamente giovane, forse perché irripetibile nella sua radicalità morale e nell’impasto di ragione e sentimento, ancora capace di incidere sull’immaginario dei ragazzi ispirando romanzi e dialoghi immaginari sulla sua insaziabile volontà di vivere («Mandami tanta vita», è l’invocazione rivolta all’allora fidanzata Ada che dà il titolo al lavoro narrativo di Paolo Di Paolo).E se un tempo si metteva al centro della scena l’organizzatore culturale e il fondatore di riviste, insomma il profilo storico-politico, oggi ad accendere l’attenzione dell’editoria è soprattutto il Gobetti più intimo, il perlustratore di orizzonti interiori, il ragazzo con «l’inquietudine di un barbaro e la sensibilità di un cinico», come crudelmente si descrive in una pagina inclusa nell’antologia appena uscita da Feltrinelli ( Avanti nella lotta, amore mio!, a cura di Di Paolo). «La storia non mi ha dato eredità di sorta», scrive alludendo alle sue modeste origini, figlio di droghieri senza cultura. «L’ambiente in cui sono vissuto non mi ha offerto comunicazioni. Non devo nulla a nessuno. Se ho voluto la storia me la sono dovuta creare io. Se ho voluto capire ho dovuto vivere», annota in una confessione che è quasi un’epigrafe. Vivere per capire. E anche il privato finisce per acquistare un valore politico che regge la sfida del tempo. Vale per un diciottenne di oggi. E vale per quel coetaneo d’ingegno che quasi un secolo fa scriveva Togliatti con la minuscola.