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 2016  febbraio 12 Venerdì calendario

Quei ventisei atleti finiti alla sbarra per doping per aver compilato male un formulario

A scuola, Silvia Salis da Genova, martellista da 71,93 metri, un sesto posto europeo e un ottavo mondiale, era rappresentante di classe. «Raccogliere gli umori dei miei compagni di sventura, oggi che sono un’atleta, ho creduto fosse necessario». Silvia è la portavoce (sindacalista non le piace) del gruppo di 26 azzurri per cui la Procura del Coni ha chiesto due anni di squalifica.
La vicenda, che risale al 2011-2012 ed è scaturita dall’indagine penale della Procura di Bolzano su Alex Schwazer, è complessa e spinosa. Nessuna positività, è bene ricordarlo: l’accusa è aver mal compilato, o non compilato del tutto, il whereabouts, cioè il formulario delle reperibilità per i test antidoping.
Silvia va a processo (sportivo) oggi, insieme a Andrew Howe, Anna Incerti e Andrea Lalli, il giorno dopo il caso-fotocopia di Vincenzo Abbagnale. Una sentenza collettiva che riguardi anche Meucci, Pertile, Donato e Greco è attesa in serata. Tra l’esigenza di non sconfessare la Procura Coni e l’inopportunità di radere al suolo la nazionale di atletica a 176 giorni dai Giochi di Rio, l’impressione è quella di essersi infilati in un vicolo cieco.
Silvia, con che animo varcherà la soglia del tribunale stamane?
«Con la consapevolezza assoluta di essere innocente. Questa dei whereabouts è una vicenda grottesca dal principio. Con la parola doping accostata ai nostri nomi, siamo stati catapultati in un mondo a cui siamo del tutto estranei. Uno choc».
Non parliamo di positività, ma di controlli elusi.
«Ma non c’è stata nessuna elusione! C’è stata una grande difficoltà a gestire il sistema delle reperibilità, prima cartaceo e poi online, in totale buona fede. Ci sono stati fax fuori uso, password errate, aggiornamenti sugli spostamenti mai giunti a destinazione... Altro che macchinazione per evitare i test antidoping».
Perché questa storia ha preso una piega così brutta?
«Vorrei capirlo anch’io. Il primo interrogatorio in Procura, senza avvocato, era stato una chiacchierata informale. Mai avrei pensato si arrivasse a una richiesta di due anni di stop. Per un’atleta è difficile comprendere. Ma ora voglio il processo, voglio uscirne pulita».
Chiederà risarcimenti per danno d’immagine, eventualmente?
«Sono molto arrabbiata, sono stata sbattuta in prima pagina accanto alla parola doping. Allucinante. È chiaro che tra me e Meucci ci sono livelli di danno diversi: io, finché non riterrò di avere avuto una risposta esaustiva, andrò avanti».
Vi difende l’avvocato Giulia Bongiorno.
«Che, ci tengo a dirlo, ci ha chiesto una parcella che definire simbolica è poco. Siamo atleti, non calciatori. Le fa onore: crede nella nostra causa».
Cosa la fa soffrire di più?
«Avvicinarmi alla mia terza, e ultima, Olimpiade in questa situazione. Allenarsi non è facile. C’è l’aspetto morale: non aver fatto nulla di male ed essere sbattuti in prima pagina. E quello pratico: stare dietro a tutto (avvocati, informative, difesa) dal Sudafrica, dove ero in ritiro sotto le direttive di Paolo Dal Soglio. Un danno a 360 gradi».
La difficoltà più grande?
«L’onore probatorio spetta all’accusato, che non ha fatto niente. Io, dal 2012, ho cambiato tre case. Fax, documenti, mail: non ho più nulla. Situazione complicata».
Ma se il sistema dei whereabouts era così scivoloso e fallace, perché non denunciarlo prima?
«Se lei paga una multa, l’anno dopo torna alla posta per verificare se il pagamento è arrivato ai vigili? Ricevevo mail che dicevano: se sei a posto, ignora questo messaggio. Ero in regola, lo ignoravo».
Perché nessun dirigente federale è finito nei guai con voi atleti?
«Io credo che la Fidal in quel periodo si sia accollata di fare da tramite tra noi e il Coni. Non so nemmeno se le spettasse. Non posso entrare in questa questione».
Qualche suo collega ha detto: Schwazer, positivo all’Epo, torna per andare ai Giochi di Rio e noi, che nulla abbiamo fatto, rischiamo di non esserci per squalifica.
«Se dipendesse da me, chi si dopa andrebbe radiato. Possiamo scandalizzarci perché c’è un regolamento che permette a chi è stato trovato positivo di tornare a gareggiare, ma così è. Da martellista, spesso mi batto contro avversarie che rientrano da squalifiche per doping. Non mi scandalizzo ma in Italia si tende sempre a fare di chi ha sbagliato una vittima del sistema. Schwazer non è un eroe, non è un reduce, non è niente. A Pechino ha vinto, a Londra ha devastato il sistema-atletica. Ma guai a chi accomuna il caso dei whereabouts al suo. Non lo accetto: è una mossa troppo scorretta».