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 2016  febbraio 10 Mercoledì calendario

La battaglia dell’Amarone

Il giornalista tedesco Hans Barth, che agli inizi del secolo scorso era corrispondente da Roma del Berliner Tageblatt, nutriva per l’Amarone una passione pari solo a quella per il latino. Nel 1908 pubblicò Osteria, con prefazione di Gabriele D’Annunzio. Nel timore d’essere frainteso, ci aggiunse anche un sottotitolo: Guida spirituale delle osterie italiane da Verona a Capri. Il motivo per cui decise di cominciare il suo viaggio proprio dalla nostra città è condensato nella definizione che di essa diede nel libro: «Verona, grande osteria dei popoli».
Trascorsi 40 anni, Ernest Hemingway arrivò nella locanda che l’oste veronese Giuseppe Cipriani aveva aperto a Torcello. Come mi ha raccontato Paolo Andrich, l’ultimo contadino rimasto sull’isola della laguna veneta, «ogni sera lo scrittore pagava da bere ai giovanotti locali perché tenessero compagnia alla moglie Mary Welsh, mentre lui saliva in camera con due bottiglie di Amarone, a scrivere». È da queste feconde ciucche che nacque Di là dal fiume e tra gli alberi. Passano altri 40 anni ed ecco che un secondo scrittore americano, Thomas Harris, nel romanzo Il silenzio degli innocenti narra dello psichiatra Hannibal Lecter, gourmet cannibale, il quale strappa il fegato a un rilevatore del censimento, lo frigge e se lo mangia bevendoci sopra «a big Amarone», un  grande Amarone (che nel film è diventato «a nice Chianti», un piacevole Chianti). Prosit.
Ora la domanda è la seguente: se l’Amarone costasse come il Lambrusco avrebbe la reputazione internazionale di cui gode da oltre un secolo? Non sono un grande bevitore, come ha intuito il critico Camillo Langone, il quale in un impeto di generosità ha scritto sul Foglio che se uscissi «dal tunnel della sobrietà» potrei diventare il nuovo Sergio Saviane. Tuttavia credo di possedere l’uso di mondo necessario per rispondere che l’Amarone venduto al prezzo del Lambrusco non avrebbe mai stregato milioni di consumatori dei cinque continenti. I quali ne ignorerebbero addirittura l’esistenza.
Dal 1993 al 2013 la produzione di Amarone è aumentata del 904 per cento, passando da 1.356.000 bottiglie a 13.617.000. Nel 2015 dovrebbe aver sfondato i 15 milioni. Buon segno, si dirà. Per niente, avrebbe eccepito il mio amico Germano Pellizzoni, compianto direttore di A Tavola, che soleva ripetere: «Se tutti gli uccellini sapessero quant’è buono il panìco, sulla faccia della terra non ce ne sarebbe più». Già, certi consumi devono restare elitari, quando si vuole proteggere un prodotto. Come si spiega allora che a gennaio un noto supermercato offrisse Amarone Docg a 10,77 euro la bottiglia, se al ristorante costa dai 35 ai 55 (il Classico 2004 di Quintarelli nel padovano Le Calandre, tre stelle Michelin, è in carta a 575 euro)? Marilisa Allegrini, dell’omonima cantina di Fumane, ha denunciato che il Valpolicella si trova sugli scaffali di un discount a 2,99 euro, il Ripasso a 5,29 e in altri supermarket l’Amarone viene svenduto a 11,29. Per non parlare di quello imbottigliato in Svizzera.
Quando nel 2000 il ministero dei Trasporti britannico decise di promuovere una campagna sulla sicurezza stradale, ebbe l’infelice idea di usare nei cartelloni la parola «Valpolicella», evidenziando con caratteri fluorescenti le sei lettere centrali, «police», per rendere subito l’idea che la polizia braccava gli sbevazzoni. Ebbene, oggi quel trademark ha perso persino il suo significato geografico. I vini Doc e Docg della Valpolicella, incluso l’Amarone, vengono prodotti pure in Val d’Illasi. Non occorre la competenza di un esperto di marketing, basta il buonsenso di un normodotato, per intuire che questo svilimento del marchio assomiglia alla parabola discendente del Prosecco. Il quale un tempo si produceva fra Valdobbiadene e Conegliano mentre ora viene imbottigliato da Trieste al Piemonte. Eppure la legge del 1963 stabilisce che i vini Doc nascano solo in territori con identiche «caratteristiche naturali dell’ambiente». Non mi risulta che ad Asti soffi la bora.
Anziché difendere tutti insieme un patrimonio fatto di prestigio ed esclusività, i produttori dell’Amarone si sono divisi in due fazioni. Da una parte Le Famiglie dell’Amarone d’arte, associazione che raggruppa le 12 cantine storiche, decise a preservare l’eccellenza del prodotto attraverso l’osservazione volontaria di rigidi protocolli; dall’altra il Consorzio per la tutela dei vini Valpolicella, che spalleggia le cantine sociali, protese a fare dell’Amarone un genere di largo consumo a prezzi stracciati. Siamo arrivati all’assurdo per cui il consorzio ha trascinato in tribunale i benemeriti che hanno reso celebre questo simbolo nel mondo. Si vorrebbe impedire loro di usare la dizione «Amarone d’arte», quasi che fare un vino a regola d’arte gettasse discredito sull’intero comparto.
Mi chiedo che tipo di supporto abbia fornito, il consorzio valpolicellese, al presidente della Masi, Sandro Boscaini, primo e unico ad aver quotato il suo vino in Borsa, quando 28 anni fa partì alla volta della Svezia per far conoscere il nettare della Valpolicella agli scandinavi, potendo contare solo sulla sua famiglia. Sarebbe interessante conoscere quali oneri si siano accollati i 30-40 produttori, venuti dopo, che oggi, grazie al lavoro da apripista svolto in solitudine da Mister Amarone, a Stoccolma riescono a svenderlo per 130 corone, contro le 400 che dovrebbe valere. E che dire del demenziale «Doppio Amarone» (sic), che in Norvegia costa 12,35 euro?
Consiglierei, prima di ricorrere ai giudici, la lettura della Descrizione di Verona e della sua provincia edita nel 1820, là dove Giovanni Battista Da Persico parlava dei vini veronesi lodati da Virgilio, Catone, Plinio, Cassiodoro e Teodorico. «Se con questo genere di lusso industrioso s’arricchì cotanto la Francia, perché non potremmo noi farne altrettanto?», si chiedeva lo storico. Ma subito metteva in guardia i vitivinicoltori dal miraggio di facili guadagni: «Nuoce la troppa copia che se ne ritrae». Insomma, occhio, ché la quantità è nemica della qualità.
L’Amarone è il top dei vini scaligeri. Il Rosso della Valpolicella esercita sui consumatori attenti lo stesso fascino della Rossa di Maranello. Ma se la Ferrari fosse fabbricata con i criteri di economicità della Fiat 500, la casa del cavallino rampante avrebbe già chiuso. A che giova erigere una piramide che dal Valpolicella arriva al Classico superiore, e via via a salire fino al Ripasso, all’Amarone e alla Riserva, se poi si persegue per tutti la stessa logica di prezzo? Giorgio Armani è diventato il simbolo del made in Italy valorizzando il prêt-à-porter e i jeans  con le collezioni d’alta moda.
L’Amarone non potrà mai essere un prodotto di massa. A meno che, dopo averne esteso la zona di produzione fino a Soave, qualcuno non pensi di allargarla all’intero Lombardo Veneto, spremendo un brand già oggi sotto stress. Certo, la mossa genererebbe lauti guadagni per i manager delle cantine Grandi Numeri. Ma sarebbe la fine di questo vino.
Resta il mistero sulle voci che concorrono a formare certi prezzi. Per ottenere un litro di Amarone servono almeno 2,5 chili di uva. Siamo già intorno agli 8 euro solo di materia prima. Riduciamo a 750 millilitri, aggiungiamoci manodopera, appassimento, tre anni d’invecchiamento in botte con cospicua perdita di peso, bottiglia, tappo, capsula, etichetta, fascetta numerata, scatola, trasporto, commissione del venditore, ricarico del supermercato, Iva al 22 per cento e spese per uffici, rete commerciale, pubblicità. Come diavolo è possibile far pagare una bottiglia 10,77 euro?
Sarà dipeso dalla fame atavica o dalla bramosia di passare subito all’incasso, fatto sta che nel Veronese non mancano i tristi precedenti in materia. Qualche esempio? Il distretto del mobile d’arte di Cerea-Bovolone: centinaia di contadini che lasciano la zappa e si mettono, senza la necessaria professionalità, a farsi concorrenza l’un l’altro a colpi di sconti, scarsa qualità dei materiali, mancanza di cura dei particolari. Il distretto delle scarpe di Bussolengo-Sona: decine di manifatture che sono arrivate a vendere a prezzi bassissimi calzature di cartone rifiutate persino dai Paesi dell’Est. Il distretto del marmo in Valpolicella e in Valpantena: tutti a tagliare gli onici blu importati dal Brasile anziché custodire l’arte antica degli scalpellini che per generazioni lavorarono solo il rosso di Verona e la pietra di Prun.
Per capire in che cosa consista il valore aggiunto dell’Amarone, i cantinieri improvvisati dovrebbero farsi una chiacchierata con Giorgio Pinchiorri, fondatore dell’omonima enoteca di Firenze, che allinea 100.000 bottiglie, a partire dallo Château-d’Yquem del 1896. «I vitivinicoltori del mio Paese sono diffidenti, non aprono le porte agli sconosciuti: devi farti annusare e aspettare il tuo turno», mi disse la sua compagna, Annie Feolde, francese. Ma Pinchiorri mi citò anche il caso di Grace Family, californiani della Napa Valley, appena 500 bottiglie di Cabernet Sauvignon a vendemmia: «All’inizio te ne mandano una, dopo qualche tempo due. Se entri in confidenza, possono arrivare a sei. Quanto a Leflaive, mi vende ogni anno solo un paio delle sue bottiglie di Montrachet». Comprensibile: il vignaiolo ne produce 280 in tutto.
L’Amarone sta alla Valpolicella come il Montrachet sta alla Borgogna. Sono sicuro che fra un secolo si parlerà ancora del gran cru francese. Non vorrei invece che, avanti di questo passo, fra dieci anni la «grande osteria dei popoli» fosse ridotta a una piccola, mediocre vineria.