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 2016  febbraio 10 Mercoledì calendario

Google s’è copiata venti milioni di volumi senza pagare un centesimo a nessuno e ora la Corte Suprema deve decidere se ne aveva il diritto o meno. Un caso che promette di creare precedenti

Editori ed esperti di copyright e altri ricorrenti hanno presentato la scorsa settimana osservazioni in qualità di parti in causa, chiedendo alla Corte Suprema di riesaminare il caso di infrazione di diritto d’autore contro Google adito dalla Authors Guild. La decisione della Corte determinerà come e se i diritti e il sostentamento degli scrittori saranno tutelati in futuro.
Se si digita «Shall I compare thee to a summer’s day?» nel campo di ricerca di Google, testo e autore saranno identificati perché oltre dieci anni fa ha stretto un accordo con diverse grandi biblioteche per la digitalizzazione di tutti i libri in loro proprietà. Nel 2004 Google ha inviato i suoi furgoni alle biblioteche e si è portato via circa 20 milioni di volumi. Li ha copiati tutti, coperti o meno da diritto d’autore. Non ha chiesto il permesso né agli autori, né agli editori, e non ha offerto alcun compenso per il loro sfruttamento, fatta eccezione per la concessione delle copie digitali alle biblioteche. La Authors Guild ha contestato tale prassi nel caso Authors Guild contro Google, la causa per violazione di copyright intentata nel 2005 e recentemente oggetto di ricorso presso la Corte d’appello del Secondo Circuito con sede a New York. In ottobre la Corte ha stabilito che Google agiva in nome della dottrina del fair use, ovvero l’utilizzo ragionevole; da una parte perché ha messo a disposizione del pubblico solo dei campioni limitati di materiale protetto da copyright, e dall’altra perché la Corte ha ritenuto che rendere disponibili dei libri in un sistema elettronico di ricerca fosse «trasformativo». La definizione di «trasformativo» implica da sempre un nuovo uso espressivo del materiale per scopi creativi, come per esempio la satira, e la copia digitale è utile solo se non subisce modifiche rispetto all’originale. Pertanto si tratta di un’alterazione della definizione di fair use, basata su quattro principi fondanti che da sempre presuppongono anche la verifica che l’atto non si traduca in un danno per gli autori e che l’utente abbia o meno scopi commerciali. Ovviamente, Google non ha altro che fini commerciali. Questo immenso tesoro di contenuti pubblicati è uno dei motivi per cui il motore di ricerca di Mountain View è così efficace e ha aiutato il colosso a diventare così redditizio. Ha sfruttato questi testi, senza permessi o compensazione, per i propri scopi. Tra essi vi sono processi interni, come il profondo arricchimento del database del linguaggio, per la traduzione, la ricerca, i riferimenti, il data mining, lo sviluppo di algoritmi, e altri usi non meglio identificati, nonché i più evidenti, come dirci che è Shakespeare l’autore del sonetto. Google fa un uso commerciale del materiale, ma sostiene che il suo servizio di ricerca di libri sia così vantaggioso per il pubblico che la società non dovrebbe pagare i fornitori per il contenuto. È opportuno ricordare che nel 2015 ha registrato un fatturato di quasi 75 miliardi di dollari. Un’indagine di Authors Guild dello stesso anno sui redditi annuali degli scrittori dal 2009 ha rilevato un calo del 67% a svantaggio di autori con 15 o più anni di esperienza. La maggior parte degli intervistati, se dovesse vivere unicamente dei proventi della scrittura, sarebbe al di sotto della soglia di povertà. Gli scrittori affermati sono importanti. Forniscono il nucleo intellettuale della nostra cultura, e in quanto società abbiamo bisogno del loro lavoro, dei loro pensieri e delle loro voci. Non possiamo permettere che i prodotti del loro ingegno siano presi senza alcuna compensazione dai colossi della tecnologia per il semplice fatto che hanno la capacità di farlo. Era per tutelare gli autori esattamente da questi rischi che i padri fondatori hanno inserito la legge sul copyright nella Costituzione, perché una democrazia ha bisogno di scrittori che possano sostenersi liberamente, senza mecenatismo o senza dipendere dal pagamento di particolari interessi. Se Google può attingere a immense distese di materiale coperto da diritto d’autore per i propri fini commerciali, stabilirà un precedente e spianerà la strada a futuri saccheggi. Il big della rete sostiene che sarebbe «proibitivo» pagare gli autori per lo sfruttamento delle loro opere, una risposta inaccettabile: il pagamento dei fornitori è, semplicemente, uno dei costi per fare business. Non è accettabile che una delle più ricche società del mondo affermi di non dover pagare i contenuti alla base di un tassello fondamentale del proprio successo finanziario. Google dipende da questi testi per rendere il suo motore di ricerca uno dei migliori al mondo, e tale superiorità è l’elemento trainante degli introiti pubblicitari. Il contenuto attira traffico, e il traffico spinge i ricavi pubblicitari.