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 2016  febbraio 10 Mercoledì calendario

Il selfie? Una pensata di Sciascia

Non è come il porco di cui non si butta niente, Leonardo Sciascia. Lui che nella cultura italiana ha una posizione tra le più alte non deve subire l’oltraggioso inventario di setole e gelatine con cui far mercato (giusto adesso che la letteratura e le librerie sono diventate “luoghi di dolore”). Qualcosa si getta. Paziente com’era – galantuomo di paese – concedeva cataloghi, prefazioni, postfazioni, note, segnalibri e presentazioni. Tutta carta che lui stesso – nel suo soccorrere pittori della domenica, poeti della sagra e palchettisti del villaggio – sperava di poter accartocciare da subito.
Tutti gli scritti di Sciascia, dunque, non fanno l’intero Sciascia. Leggerne ogni coriandolo, trascrivere ogni conferenza, non può che sfregiare quel monumento di fatica intellettuale qual è il Maestro di Racalmuto. A costo di capovolgere – per contrappasso – ciò che lo stesso Sciascia auspicava per Alberto Savinio di cui, in tema di carte sparse, nulla voleva buttare. Paolo Squillacioti, al contrario – e bene fa – certifica l’impossibilità di un’operazione analoga su Sciascia di cui cura il Fine de il Carabiniere a cavallo (Saggi letterari 1955-1989, Adelphi). In un’intervista del 1956, infatti, è lo stesso Sciascia – e ce lo ricorda Squillacioti nella nota al testo – a mettere un argine: “Dei libri precedentemente pubblicati, solo un libretto di favole edito nel ’50 non mi pesa come un rimorso”.
Non è certo un inventario di setole, dunque, questo libro in uscita. Vi si radunano recensioni, divagazioni e ritratti scritti lungo un percorso a incroci tra letteratura, politica e giornalismo; scritti nel segno di una lingua – l’italiano – da Sciascia considerata come la “lingua del ragionamento”.
Non è, questo libro, come un cane che gira per mordersi la coda. Senza interrogarsi su se stesso, Sciascia, che parla a una generazione cresciuta all’ombra della “terza pagina” – come freccia – va dritto al bersaglio. Si confronta con i protagonisti e anche con le ossessioni della sua giovinezza, l’eterno femminino nella terra di Luigi Pirandello e poi – lettore curioso – Vitaliano Brancati, il primo dei giganti della letteratura a portata di mano, a Caltanissetta.
Sciascia, nel 1938, frequentava l’istituto Magistrale dove Brancati insegnava: “Lo vedevo arrivare ogni mattina, scuro di volto e di vestiti. Avrei voluto avvicinarlo, fargli leggere le cose che allora scrivevo: versi ermetici e prose fatte tutte di ‘a capo’ e lampeggianti. Ma non gli parlai che tanti anni dopo, fuggevolmente, grazie a Mario La Cava, in casa Bellonci”.
Squillacioti, ancora a proposito della lettura sciasciana del Sogno di un valzer di Brancati, segnala un presagio a noi familiare, il selfie: “Fotografare, la mattina prima di ogni primo del mese, nella stessa posa, un uomo qualunque, dal giorno della nascita a quello della morte; dodici fotografie l’anno, 720 in sessant’anni; e una vita intera sarebbe corsa sullo schermo nel giro di pochi minuti”. Ecco, da sottoporre a un qualche americano questa pensata, scriveva Sciascia ed è – questo presagio – la controprova del privilegio proprio della letteratura, mettere a nudo i fatti in forza del ragionamento.
Accanto al selfie, c’è un altro presagio. L’Italia si fa sempre a dispetto di Francesco Guicciardini e tutto – annota Sciascia – è un “sia gloria al Machiavelli”; il “confuso e confusionario Machiavelli; il tanto poco intelligente Machiavelli; il ridicolo Machiavelli che vuol fare manovrare un reggimento in piazza d’armi…”. Ecco, l’Italia di Matteo Renzi – selfie compreso – è già tutta in questo presagio.
Altro non è rimasto al mondo che il raccontare, è il punto d’arrivo di tutti i capitoli dove l’anti-retorico Sciascia ha, sulla Guerra di Spagna per esempio, un inciampo tutto ideologico se poi in quella vicenda di fratricidio manca un tassello: perfino quello di Dalì in posa orgogliosa sotto il ritratto di Josè Antonio Primo de Rivera, fondatore della Falange e poeta tanto quanto ogni altro poeta morto nell’altra parte.
E sono capitoli, però, inaspettati, come quello in cui, rendendo omaggio all’anti-antifascista Leo Longanesi, recensisce Indro Montanelli, senza temere le facili scomuniche in un tempo – quello di ieri, a maggior ragione oggi – dove “si considera di destra ciò che danneggia la sinistra”.
Sciascia non scrive per quel tipo di lettore che decreta il successo dei libri. La cattiva coscienza, o chi ne fa le veci – forse la buonafede? – batte due piccoli colpi sul tavolo, dà di sospiro e dice: “…quanto ci manca, oggi, uno Sciascia!”. Ciascuno, allora, simula l’interesse più partecipe ma magari sta già pensando a come meglio darsi alle idee correnti perché, insomma, uno Sciascia, oggi – dove quel tipo di lettore liscia il pelo dal verso giusto – sarebbe considerato al più un gufo: un dispensatore guicciardiniano di assai impegnativi presagi scritti, tutti, nella pulita lingua del Ragionamento italiano.