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 2016  febbraio 10 Mercoledì calendario

Parla Maria Luccioli, la prima donna magistrato

Maria Gabriella Luccioli, classe 1940, pioniera delle donne in magistratura, è una delle magnifiche otto che per prime indossarono la toga nel 1965 dopo che, il 9 febbraio del 1963, il Parlamento approvò la legge che stabiliva la parità tra i sessi negli uffici pubblici e nelle professioni. Da allora sono passati cinquant’anni, le donne in magistratura hanno superato nei numeri gli uomini, ma c’è ancora molta strada fare, come ha ricordato il ministro della Giustizia Andrea Orlando sul nostro giornale. Ancora poche le donne sono chiamate a ruoli direttivi. Ad aprire la strada – ancora una volta – è stata Maria Gabriella Luccioli che fino a maggio è stata la prima presidente titolare di sezione della Cassazione.
Allora, presidente Luccioli, le hanno fatto piacere le parole del ministro Orlando?
«Molto. Il ministro ha detto cose che è difficile sentire da un uomo. L’argomento ha ancora molte vischiosità. Il tetto di cristallo è sempre lì».
Quanto è resistente?
«Abbastanza da non essere stato ancora infranto. In magistratura la percentuale delle donne chiamate a incarichi direttivi è ancora troppo bassa. Da poco sono state nominate due donne a capo della procura generale di Bari e di Genova. E siamo qui a parlarne. Se poi apriamo il capitolo Csm...».
Apriamolo
«Tre sole donne e noi giudici togati ne abbiamo eletta una sola. Una sproporzione assoluta che rende difficile portare avanti una politica delle pari opportunità. Occorre riequilibrare la situazione cambiando le regole nell’elezione dei membri».
Lei è quindi favorevole alle quote rosa...
«Per il sistema elettorale del Csm le quote costituiscono un elemento essenziale».
Lei è stata la prima donna candidata a diventare presidente della Cassazione, nel 2013. Poi le è stato preferito un uomo (Giulio Santacroce).
«Non è una vicenda di cui parlo volentieri».
Immagino. Otto associazioni femminili scrissero al Presidente della Repubblica sottolineando come fosse l’occasione giusta per dare «concretezza al processo da tempo in atto nella società civile e nelle istituzioni democratiche per la piena realizzazione della parità tra donne e uomini». Si è data una risposta sul perché non ce l’ha fatta?
«Possono aver pesato tante cose. Certe sentenze, come quella Englaro, possono aver dato fastidio. Oppure non si è ancora pronti ad affidare la presidenza della Cassazione ad una donna. O il fatto che non ho mai chiesto niente a nessuno».
O può aver pesato anche la sentenza, oggi molto attuale, in cui si sottolineava come un bambino possa crescere sereno anche con una coppia omosex.
«Una sentenza troppo enfatizzata. Si trattava di verificare se la corte di Appello avesse correttamente affidato il bambino alla madre nonostante questa avesse una relazione omosessuale. E la mia decisione si basava sul fatto che il padre era violento e che non vi sono certezze scientifiche o dati di esperienza che provino come vivere in una famiglia omosex sia dannoso».
Quando lei e le sue sette colleghe siete entrate per prime in magistratura quale era il clima?
«Pessimo. Mi ricordo la diffidenza, il pregiudizio, la malcelata ostilità, il paternalismo. Percepivo il dovere di dare il massimo perché nessun errore mi sarebbe stato perdonato. Poi, mano a mano, mi sono affrancata da questo “costo in più” e ho acquisito la consapevolezza di dover creare un mio modo di essere giudice non appiattito sul modello maschile».