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 2016  febbraio 10 Mercoledì calendario

«Qualcuno vuole fare cadere Al Sisi». L’ultima versione del Cairo sull’omicidio di Giulio Regeni

L’uccisione di Giulio Regeni è un attacco diretto ad Al-Sisi portato da un nemico interno o, più probabilmente, da un potenza straniera ostile. Visto dal Cairo, il terribile delitto ha pochi punti fermi e pone un enorme interrogativo, che mette in questione la stabilità del Paese e la solidità delle sue relazioni internazionali. 
Fonti arabe al Cairo lo ricostruiscono così. Giulio Regeni è scomparso al Cairo il 25 gennaio. Il suo corpo straziato è stato ritrovato mercoledì 3 febbraio, lungo l’autostrada che collega la capitale egiziana ad Alessandria. Subito dopo la scomparsa le autorità italiane hanno chiesto agli egiziani di cercarlo, di fare tutto il possibile. Per nove giorni è buio fitto. Poi, improvvisamente, compare il cadavere.
Le tre piste
Il ragionamento che fanno al Cairo è netto. In uno Stato dal controllo ferreo, militare, verticistico di tutti gli apparati è impensabile che una singola unità si prenda l’autonomia di compiere un simile atto nei confronti di un Paese amico e alleato, di tenere prigioniero un ragazzo straniero per nove giorni e poi ucciderlo tenendo tutti all’oscuro. L’unica spiegazione è che l’operazione sia stata decisa, pianifica ed eseguita da qualcuno che voleva colpire l’Egitto, e il suo presidente Abdel Fatah al-Sisi. 
Al Cairo seguono tre ipotesi. Due interne, e una esterna. Certo chi ha colpito voleva sabotare i rapporti fra Italia ed Egitto. Non appare un caso che il dramma si sia svolto a cavallo della visita del ministro italiano per lo Sviluppo economico, Federica Guidi. Gli interessi e gli investimenti italiani nel Paese sono molteplici, ma con la scoperta del maggior giacimento di gas nel Mediterraneo orientale, annunciata il 30 agosto, l’Eni gioca un ruolo fondamentale. Anche perché, una volta a regime, il giacimento potrà dare l’autonomia energetica all’Egitto ed essere un volano formidabile di sviluppo.
Lo Stato islamico
Al-Sisi ha puntato molto sulla ripresa economica per asciugare il lago dove nuotano gli islamisti. Con l’attentato all’Airbus russo in volo da Sharm el-Sheikh a San Pietroburgo, il 31 ottobre, l’Isis ha sferrato un colpo mortale al settore turistico. Un’ipotesi è che ora lo Stato islamico abbia puntato a far saltare gli accordi Italia-Egitto per indebolirlo ancor di più. Ma al Cairo sono scettici. Non ci sono le modalità dell’Isis in tutta la vicenda. 
Si passa allora al secondo indiziato, i Fratelli musulmani. Anche qui però le modalità non tornano. I gruppi legati alla Fratellanza sparano, compiono piccoli attentati, puntano a poliziotti e giudici. Ma non fanno queste cose. Questa non è stata finora la loro strategia, notano al Cairo. A meno che non abbiamo cambiato strategia, e questo le fonti «non lo possono escludere», non sono stati loro.
Il ragionamento passa al nemico esterno. Cioè uno o più Stati che hanno interesse a disarcionare Al-Sisi, che hanno interesse a vedere l’Egitto nuovamente debole, manovrabile. Gli interrogativi che si pongono al Cairo portano a due possibili indiziati. E sono due Paesi molto vicini all’Egitto, in teoria stretti alleati. Due potenze sunnite con le quali l’altro grande Paese sunnita condivide interessi e visioni strategiche. Ma con i quali negli ultimi mesi si sono sviluppate tensioni inedite. Vale a dire la Turchia e l’Arabia Saudita.
Le tensioni con la Turchia
Con Ankara il motivo delle tensioni di chiama Libia. Non è un motivo nuovo, ma con l’accelerazione verso un governo di unità nazionale il problema si è acuito. La Turchia sostiene il governo di Tripoli, legato alla Fratellanza, l’Egitto quello di Tobruk duramente anti-islamista. Al-Sisi, in sostanza, non vuole traccia di Fratelli musulmani nel nuovo esecutivo guidato da Fayez Al-Sarraj. Per Tripoli, e per l’influenza turca in Libia, sarebbe la fine. 
Il fronte libico
Ma c’è un altro elemento libico. L’Italia ha cercato di mediare in questa partita. Tanto che Al-Sisi ha sfumato le sue posizioni. E soprattutto si è allontanato dal generale Khalifa Haftar, capo delle forze armate libiche di Tobruk, uomo forte e uomo di tutte le stagioni, delle guerre clandestine, stretto collaboratore di Gheddafi e poi, dopo la sconfitta nella guerra in Ciad, uomo degli americani, vicino alla Cia (ha vissuto per anni a Langley, in Virginia). Ma il generale sarebbe così spregiudicato da attaccare il suo ex protettore?
I dubbi portano allora all’Arabia Saudita. È stata, con i Paesi del Golfo, il grande sponsor di Al-Sisi. Il suo maggiore finanziatore. Con un patto: soldi in cambio di soldati. Al-Sisi aveva promesso il suo aiuto in caso di guerra. Riad è intervenuta nello Yemen, un conflitto duro, sanguinoso, con i ribelli sciiti Houthi. Al-Sisi si è tirato indietro, non ha inviato militari al fronte. Forse tutto ciò è stato visto come un tradimento, tanto più alla luce del riavvicinamento di Arabia e Turchia nella guerra in Siria? Al Cairo temono che qualcuno voglia indebolire Al-Sisi dal di dentro. Per poi sostituirlo con un presidente più manovrabile.