Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  febbraio 10 Mercoledì calendario

L’intervista all’uomo che ha inventato la bici dopata

Il mercante di scintille è un ingegnere di Pécs, Ungheria. Nel mondo delle corse lo conoscono tutti e tutti lo chiamano per nome, “Stefano”, all’italiana. L’ha inventata lui la bici a motore. Ora, dopo il caso di Femke Van den Driessche, la ragazza belga pescata col motorino tra le pedivelle al Mondiale U23 di ciclocross, “Stefano”, all’anagrafe Istvan Varjas, ha trovato le parole. Ad Aigle, «dove mai negli anni di McQuaid mi hanno ascoltato», chi deve, prenda appunti. Almeno questo chiede, il dottor Frankenstein d’Ungheria.
Adesso le trovano, Varjas.
«Hanno deciso di mettere paura ai corridori, ma occhio, quello che è successo alla Van den Driessche significa nulla. La telecamera termica (un metodo in via ancora sperimentale) non può vedere nulla, perché il mio sistema, messo all’altezza del movimento centrale, si raffredda velocemente, un minuto e la bici è pulita. Hanno preso un pesce piccolo su soffiata, nella gara meno importante della disciplina meno importante del grande mondo del ciclismo».
Perché l’avrebbero fatto?
«Hanno capito, finalmente. All’epoca di McQuaid, quando il mio sistema, che era nato per aiutare gli amatori ad aggiungere un centinaio di watt alle loro gambe, iniziò ad arrivare tra i pro, denunciai quasi subito ciò che stava accadendo. Ma non mi diedero ascolto».
Che interesse aveva lei nel denunciare?
«Non ho mai venduto una sola bici ai professionisti, ma avevo comunque il mio giro d’affari. Nel 2011 un ragazzo italiano, Michele Bufalino, scrisse un bel libro (La bici dopata, Cld editore), aveva visto giusto, anche il procuratore di Torino Guariniello si interessò alla vicenda. E io ho sentito il dovere di denunciare l’abuso di un’idea nata come legittima, nemmeno troppo originale».
Quando ha iniziato a costruire motorini per bici?
«Una ventina di anni fa. Nel 2009 ho avuto contatti con la Carrera, l’azienda italiana, ho iniziato con loro a interessarmi delle possibili applicazioni della mia creazione. La mia idea è stata successivamente sviluppata dall’austriaca Gruber (oggi Vivax)».
In cosa consiste la sua invenzione?
«Un motore azionato per via elettronica, senza fili e con una batteria facilmente occultabile, che messo in funzione attiva un sistema di pedalata assistita».
In quale momento della gara un professionista dovrebbe utilizzarlo?
«Avendo un’autonomia tutto sommato limitata, i corridori la usano nel momento dello scatto, quando devono fare la differenza. Un’accelerazione, il tempo di guadagnare quei metri sufficienti ad andar via, poi si può disattivare. Oppure i corridori lo usano nelle fasi preliminari della corsa, per “salvare la gamba”, la bici va da sola, loro non devono fare altro che fingere di pedalare. Poi cambiano la bici. E dato che solo le bici all’arrivo, e non quelle sulle ammiraglie, vengono controllate, il gioco è fatto».
Quanto costa il motorino?
«Poche migliaia di euro, è alla portata di chiunque».
Si parla anche di un altro sistema, più sofisticato, che usa i principi dell’elettromagnetismo attraverso fili occultati nella ruota posteriore.
«Quello costa 200mila euro, mi sorprenderebbe molto vederlo in giro. Ma non lo escludo».
Secondo lei, quante bici motorizzate girano in gruppo?
«Mi risulta che in poco tempo siano stati venduti 1200 motorini, faccia un po’ lei...» Come si combatte questa diavoleria?
«Chi dice di aver trovato il sistema di prenderli, mente. C’è un solo modo: il passaporto biologico della potenza, registrare i watt di soglia dei corridori e rendere pubblici i dati. Chi va oltre sta barando. E la gente vuole vedere uomini che faticano sui pedali. La moto... no, Valentino Rossi fa un altro sport».